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Dinamiche del mutamento e prospettive
 
 


1. Pronatura e la riserva della biosfera.

Le prospettive del mutamento nelle due comunità di Punta Laguna e Yodzonot Laguna passano inevitabilmente attraverso l’esito del dibattito e delle negoziazioni tuttora in corso per decretare riserva della biosfera l’area circostante i due villaggi. I soggetti implicati nel dibattito sono: Pronatura Proyecto Yucatàn, che ha proposto un progetto finalizzato alla dichiarazione di 10.000 ettari di territorio boscoso da adibire a riserva per la conservazione della scimmia ragno e delle altre specie della biosfera, la SEMARNAP (Secreterìa De Medio Ambiente Recursos Naturales y Pesca) che si interessa di conservazione naturale e di progetti relativi a territori che abbiano un’estensione superiore ai 5.000 ettari ed il cui benestare garantirebbe una importanza a livello nazionale alla riserva con la conseguente possibilità di accedere a più cospicui aiuti governativi, l’INAH (Instituto Nacionàl de Antropologìa e Historia) che si occupa della conservazione delle rovine archeologiche o luoghi di interesse storico, la Procuradorìa Agraria, la cui presenza dovrebbe tutelare i diritti dei contadini che abitano le terre interessate al progetto; e la totalità degli abitanti dell’ejido di Valladolid, in assoluta maggioranza indigeni, rappresentati dal Comisario Ejidal, portavoce della Asemblea Ejidal.

Inizialmente il progetto aveva ottenuto il favore dell’INAH, i cui sopralluoghi avevano indicato in alcuni monticoli preispanici ed in un altare di recente scoperta in una grotta, dei luoghi degni di conservazione e di studio. Recentemente le ricerche di alcuni archeologi hanno portato alla luce nuovi reperti e scoperto sul fondo del cenote di Punta Laguna l’esistenza di oltre sessanta teschi ed alcuni oggetti che testimoniano lo svolgimento di rituali da parte di gruppi insediati in questa area in epoca antica. La stessa SEMARNAP aveva individuato nella relazione di PPY sufficienti ragioni per dichiarare l’area riserva della biosfera. Ma tale movimento favorevole trovò l’opposizione da parte della Asemblea Ejidal, sostenuta dalla Procuradorìa Agraria, che considerava il progetto come una troppo elevata sottrazione di terreno coltivabile alle comunità locali che vivono dei prodotti dell’orticoltura itinerante e proponeva di scendere ad una quota fra i 2.000 ed i 4.000 ettari di territorio da adibire a riserva. Tale proposta non è stata accettata da PPY poiché non garantisce alle scimmie ragno di avere sufficiente monte alto (macchia di fitta selva caratterizzata da alberi più alti) per potersi riprodurre, ma soprattutto rende impossibile l’interessamento al progetto della SEMARNAP, che, come detto sopra, si occupa solamente del finanziamento di progetti che abbiano per oggetto territori di una estensione di almeno 5.000 ettari. Tali questioni hanno congelato le trattative ufficiali ed al contempo hanno acceso il dibattito nelle comunità e fra le parti in causa.

Proprio in questo difficile momento PPY ha varato alcuni progetti nelle comunità che in realtà sono apparsi più come un tentativo di acquisire prestigio per convincere coloro che ancora non erano d’accordo con il progetto della riserva, della bontà delle intenzioni della ONG, che ha iniziato una lenta opera di convincimento spiegando l’utilità del progetto e soprattutto l’interesse economico che le comunità avrebbero potuto ottenere dedicandosi alla manutenzione dell’area decretata riserva. Alcune conversazioni informali svolte con gli abitanti delle comunità hanno messo in luce due principali tendenze di opinione che vedrebbero sostanzialmente una parte favorevole al progetto convinta dalle prospettive di aumento delle risorse economiche prospettate dalla ONG ed una parte non favorevole che adduce fra le sue motivazioni la possibilità di perdere parte delle terre coltivabili ora a disposizione oltre ad una generale avversione per il cosiddetto mondo dei ladinos (Mestizos). Ciò si traduce nella quotidianità in una divisione degli indigeni in gruppi favorevoli al lavoro svolto da PPY nelle comunità ed in gruppi che invece si oppongono. Si nota dunque facilmente che il lavoro svolto da PPY ha indubbiamente contribuito all’aumento degli attriti già esistenti in Punta Laguna fra Don Serapio ed il resto della popolazione ed a crearne di nuovi fra Don Clemente e Don Nemencio in Yodzonot (cfr. cap. IV, § 2), disaccordi che ora si sono inaspriti nel tentativo di ricercare i diritti genealogici relativi alla fondazione della comunità. Gli interventi di PPY, proposti in castellano (lingua che non è intesa da tutti perfettamente ed è quasi totalmente sconosciuta alle donne) e senza il dovuto rispetto delle istituzioni politiche interne delle comunità, hanno assunto le caratteristiche di quei progetti di sviluppo, totalmente esterni ai paradigmi locali, che durante l’ultimo mezzo secolo hanno attentato alla costumbre maya, i quali, promossi da agenti esterni come ufficiali indigenisti, missionari protestanti, religiosi cattolici, attivisti di sinistra etc., hanno promesso ai Maya una vita più giusta e dignitosa, secondo le proprie tendenze ideologiche (Jan de Vos, 1998: 501). L’ideologia verdista della ONG traspare fin dalla definizione della riserva che indica nella flora e nella fauna e nei reperti archeologici gli obiettivi principali della conservazione mentre l’interessamento alle comunità che occupano tale territorio è, per così dire, accidentale. In quest’ottica gli indigeni diventano simbolicamente uno strumento indispensabile per una conquista ideologica che in definitiva appartiene solo alla ONG, ma che al contempo promuove un cambiamento importante nello stile di vita delle comunità che dovrebbero apprendere nuove tecniche di coltivazione compatibili con il territorio circostante adibito a riserva ed imparare a sfruttare nuove risorse economiche derivanti dall’ecoturismo, trasformandosi come nel desiderio di PPY nei custodi di tale patrimonio naturale.

La situazione attuale pare dar ragione alla ONG, poiché l’opera di convincimento di PPY nelle comunità e della SEMARNAP nei confronti dell’Assemblea Ejidal e della Procuradoria Agraria, hanno indirizzato le trattative verso un accordo per decretare riserva un’area di un’estensione pari a 5.300 ettari che, nel rispetto dei tempi della burocrazia messicana, quanto prima riceveranno il riconoscimento ufficiale.
   

2. La riserva di “El Pilar”: per un confronto.

A questo punto mi sembra interessante poter effettuare un breve confronto fra le caratteristiche che si prospettano per la riserva di prossima istituzione nella regione yucateca ed una riserva già esistente da più di dieci anni in prossimità del confine fra Belize e Guatemala e creata con identici presupposti ed interessi:
   

Dopo più di dieci anni di negoziazioni, quattromila acri della foresta tropicale situati a cavallo del confine tra Belize e Guatemala sono stati dichiarati degni di conservazione e preservazione. Conosciuta come Riserva Archeologica per la flora e la fauna, El Pilar, è caratterizzata da settantacinque acri sui quali si distingue la presenza di siti maya occupati fra il 300 a.C. e il 1000 d.C. Con 15 piazze e numerose strutture, El Pilar, che raggiunse il suo apogeo nel periodo Tardo Classico (600-900 d.C. circa), è il più vasto sito nell’area del fiume Belize. Un esteso sistema di piste e sentieri creato ad hoc permette ai visitatori di essere testimoni del lavoro agricolo e dell’artigianato prodotto dai Maya moderni.

Vediamo la riserva come un "Museo Vivente", dice la direttrice del progetto Anabel Ford dell’università della California, Santa Barbara, che ha condotto scavi fin dal 1983.

Si spera che la riserva, le cui entrate derivano in primo luogo dall’ecoturismo, servirà da modello per lo sviluppo sostenibile in tutta la regione che sta perdendo risorse naturali negli ultimi anni a causa dell’agricoltura condotta con il metodo conosciuto come slash and burn.

L’accordo El Pilar segna per la prima volta una cooperazione fra Guatemala e Belize su una questione culturale da quando il secondo (prima Honduras britannico) ha ottenuto l’indipendenza 1981.

Angela M. Schuster

(http://archaeology.org/9809/newsbrief/maya.html)
   

Dello stesso tenore appare questo brano che intende propagandare l’area di Punta Laguna:
   

“Una camminata per i sentieri della selva alla ricerca di un esemplare di scimmia ragno; un’escursione in canoa nelle acque cristalline dell’immensa laguna; l’opportunità di rilassare il corpo e la mente con un tuffo nella tranquillità di un cielo sereno. (...) L’ecoturista, si caratterizza, fra l’altro, per mostrare chiaro interesse nell’appoggio alla conservazione dei luoghi che visita e, fra le caratteristiche che definiscono l’ecoturismo c’è quella di permettere il sostentamento economico delle comunità umane rurali che, generalmente, abitano nei paraggi delle aree naturali che esercitano tanto fascino nel visitatore. (...) Una gestione ecoturistica del luogo permette ad una comunità di mostrare parte della propria cultura e delle sue tradizioni al visitatore, al quale è possibile offrire prodotti artigianali elaborati localmente, arricchendo così l’esperienza di chi si avventura per conoscere una delle zone più belle della penisola dello Yucatan”.

Eduardo G. Zamora

(http://www.cityview.com.mx/ cancun1/articulos/laguna.htm)
   

Le similitudini che si possono facilmente riscontrare nel confronto fra i due progetti sono evidenti e riguardano la presenza di una fauna ed una flora tropicale considerate degne di conservazione e la presenza di importanti reperti archeologici che testimoniano un’antica occupazione del territorio da parte degli antenati di coloro che oggi sono chiamati a custodirli in quanto loro diretti discendenti, ma ancor più evidente è l’orizzonte ideologico che unisce i due progetti e che indirizza tutti gli sforzi verso la conservazione dei beni ambientali ed archologici riservando alle comunità un interesse marginale e considerando l’ambiente umano alla stessa stregua di una qualunque specie della biosfera. Nei documenti relativi ai due progetti non è menzionato alcun interesse relativo a problematiche di tipo socio-culturale e gli unici progetti indirizzati alle comunità riguardano soprattutto l’insegnamento di pratiche produttive ecocompatibili e progetti per lo sviluppo dell’ecoturismo. Lo sviluppo comunitario è inteso univocamente come una strategia tesa al risollevamento economico delle comunità e viene condotta a termine mediante progetti esterni totalmente estranei ai paradigmi locali, senza la minima considerazione della differenza culturale che non permette una immediata comprensione reciproca.

Nei prossimi paragrafi cercheremo di definire come tali progetti possano innescare processi socio-culturali differenti e vedremo a quali conseguenze questi possano condurre.
   

3. L’importanza del paesaggio culturale

Istituire una riserva della biosfera significa innanzitutto compiere un intervento sul territorio e sul paesaggio culturale dell’area interessata.

Il paesaggio culturale è stato tradizionalmente oggetto di studio della geografia.

La prima definizione di tale concetto fu data nel 1938 al Congresso di Amsterdam e si limitava a definire il paesaggio geografico come la sintesi del paesaggio sensibile o visivo (ciò che si vede) e a dichiarare la geografia scienza del paesaggio. Da allora varie sono state le riflessioni critiche sul concetto di paesaggio geografico (Lucio Gambi, 1961; Denis Cosgrove, 1985; E. Hirsh, 1995, fra gli altri) che lo hanno ridefinito arricchendolo di una dimensione storica e culturale che la prima definizione non aveva considerato ed aveva invece confererito al paesaggio geografico una fissità che riteneva si potesse prestare ad interpretazioni naturalistiche, o peggio deterministiche, e nel quale non riusciva a ravvisare l’intervento dell’uomo della storia, quello cioè che è soggetto del paesaggio e perciò del rapporto società-natura, ma solo dell’uomo dell’ecologia, quello che fa parte della natura, come ogni altro rappresentante del regno vegetale o animale, e che solo in quanto tale può avere prodotto forme paesaggistiche (L. Gambi, 1961; citato in P. Sereno, 1992). Ma l’uomo, oltre che fatto biologico, è fatto storico ed è proprio in quanto tale che plasma, trasforma, organizza il proprio quadro territoriale, in continuo rapporto dialettico con la natura (P. Sereno, 1992). Più recentemente si è interessata alle medesime questioni riguardanti il territorio ed il paesaggio culturale Denise Fay Brown che ha condotto ricerche nell’area di Chemax, cittadina di circa quindicimila abitanti totalmente di lingua maya, distante solo pochi chilometri dalle comunità che prendiamo in considerazione in questo scritto, riservando particolare attenzione oltre alla costruzione ed alla composizione del paesaggio anche alle pressioni più importanti che ne determinano il cambiamento e la trasformazione. Il proposito è quello di fornire degli esempi di elementi del paesaggio dei Maya di Chemax (la selva, gli stanziamenti, i siti archeologici) che possono contrastare con una concettualizzazione non-Maya (Denise F. Brown, 1999).

Sorvolando la zona di Chemax, come del resto l’area dove sono ubicate Punta Laguna e Yodzonot Laguna sembra esistere soltanto selva, ma cambiando prospettiva, fa notare Denise F. Brown, cambiano anche le interpretazioni:
   

La selva, da dentro, appare ai miei amici di Chemax come un sistema altamente diversificato, colmo di evidenze di attività passate e di risorse utili per il presente o per il futuro. Esistono luoghi dove predomina l’attività di certe famiglie, milpas abbandonate che la selva comincia a riconquistare, esistono alberi come il chicozapote, che ricordano l’attività di estrazione del chicle che ormai è scomparsa nella zona. Esistono anche alberi di agrumi che delimitano gli stanziamenti abbandonati che abbondano in questa regione. Camminando nello spazio della selva, i Maya sono collocati nel ciclo del tempo; ovvero la selva è il mezzo che unisce lo spazio e il tempo (Denise F. Brown, 1999: 78).

Gli stanziamenti recentemente abbandonati e le rovine archeologiche rivestono, soprattutto per i più anziani, una importanza determinante nella interpretazione indigena in quanto esiste la credenza che prima o poi torneranno ad essere abitati. Non solo, ma alcuni siti preispanici sono ancora oggi considerati luoghi sacri e vengono periodicamente visitati da X-men e curanderos per dar luogo alla celebrazione di rituali religiosi. Tali siti e rovine sono considerati luoghi di potere e si considerano abitati dagli aluxes, ovvero gli idoli, o le figure di pietra e terracotta che rappresentano gli abitanti che furono condannati a trasformarsi in esseri inanimati, ma che possono anche attualmente infastidire i contadini nelle attività di caccia o relative alla cura delle milpas (vedi cap. 2, § 2).

Questi brevi esempi, che non pretendono illustrare la complessità del discorso sul territorio, tentano comunque di fornire elementi utili alla comprensione del fatto che il paesaggio culturale include attività e credenze dell’essere umano nel contesto di una natura che è anche di sua costruzione. Da questa prospettiva si comincia ad intendere come una interpretazione comune e condivisa del paesaggio culturale possa relazionarsi strettamente con la costruzione ed il mantenimento dell’identità di un gruppo culturale.

La letteratura sull’identità etnica maya ha avuto due principali approcci teorici: il primo riconduce la formazione dell’identità all’opposizione dei Maya al mondo degli Spagnoli o dei ladinos; l’altro invece ritiene verosimile l’esistenza di un genuino, nativo filo conduttore che attraverso la tradizione unisce i Maya moderni alla società preispanica (in Wilson, 1993). Tali approcci riconducono dunque il dibattito alla dicotomia fra struttura e processo, fra la supposta esistenza di una essenziale struttura dell’identità maya ed una identità invece costruita attraverso un processo relazionale con il mondo non-maya. Il tentativo di superare questi rigidi modelli interpretativi suggerisce di intendere l’identità etnica non solo come un problema di struttura ma in maniera più pertinente come una esperienza di vita, che necessita di una definizione politetica(in Wilson, 1993). Le idee di Anderson (1991) sulla imagined community ci forniscono un approccio più radicato, storico e discorsivo allo studio dell’identità etnica. L’etnicità si forma tramite un processo storico basato su preesistenti elementi della comunità e della cultura ed è legata ad una comunità immaginata costruita su di un passato condiviso ed un futuro comune (Anderson, 1991, cit. in Wilson 1993: 122). Ma come ha argomentato Weber non possiamo scorgere un’esistenza oggettiva dell’identità quindi non possiamo nemmeno formularne una teoria generale, ma solamente avere una teoria radicata della etnicità (Weber, 1987, cit. in Wilson 1993: 123). Sebbene il discorso sull’identità maya di Wilson si riferisca alle popolazioni maya delle terre alte, in particolare all’etnia Q’eqchi, egli individua nella multidimensionalità della cultura un elemento più forte degli altri: la religione, che si radica soprattutto nel culto dello spirito della montagna e si relaziona più in generale con gli elementi naturali.

Le identità comunitarie sono immaginate attraverso la relazione con il locale paesaggio sacro (Wilson, 1993). La religione indigena come culto della natura rappresenterebbe dunque un elemento fondamentale nella costruzione della identità e nel mantenimento della stessa. Gli stessi Bartolomè (1988) e Jan de Vos (1998) hanno individuato nella religione e nel culto della natura la spinta verso la ribellione india nella guerra de castas e l’origine dell’importante periodo della rinascita comunitaria (vedi cap. II, § 1).

In conclusione quindi il paesaggio culturale, continuamente ridisegnato dai Maya attraverso una continua dialettica con la natura, costituisce una fitta rete di significati diversi, soprattutto religiosi, permeati di una densa simbologia che delinea un orizzonte concettuale oltre che spazio-temporale che fornisce elementi di riconoscimento ad un gruppo culturale che costruisce proprio sullo stretto legame con l’ambiente naturale ed i suoi significati, i presupposti della propria identità.
   

4. Pressioni esogene e trasformazione del paesaggio culturale

Il territorio inteso come paesaggio culturale riveste dunque una particolare importanza per i gruppi che lo abitano e quando questo è soggetto a diverse interpretazioni che esercitano pressioni affinché cambi e si trasformi, ci si trova di fronte a problematiche che invadono anche la sfera socio-culturale.

La definizione della selva per la gente maya della regione in questione contrasta nettamente con quella del settore ufficiale e governativo dello Yucatan, che corrisponde ad una percezione ampiamente condivisa dalla gente di città.

Mentre il settore ufficiale si riferisce alla selva come ad una zona dove esiste solo selva, dove cioè non esistono infrastrutture e stanziamenti umani, la gente maya risponde che tale selva ricopre più di settemila ettari di monte alto con alberi in grado di fornire legna dura come il cedro o il chacté e il chechén ed il tzalàm, con la presenza di stanziamenti con campi seminati ed animali domestici (Denise F. Brown, 1999). In altre parole nell’interpretazione del paesaggio culturale del settore ufficiale, la selva rappresenta un’area omogenea non conosciuta, non abitata e neppure molto utile, in grado di testimoniare soltanto il sottosviluppo ed il degrado delle zone rurali ed indigene dello Stato.

Nel 1992 un accordo fra i governi di Honduras, El Salvador, Guatemala, Belize e Messico ha varato un grande progetto comune dal nome “Mundo Maya” per promuovere turisticamente la zona anticamente chiamata Mayab. Un brano del materiale turistico ed illustrativo distribuito dice:
   

Parte integrale del programma è lo sviluppo regionale che deve essere stimolato dall’incremento del turismo. Tale programma dovrà anche portare alla conseguenza di innalzare il livello di vita degli abitanti creando nuovi impieghi nell’area di costruzione delle nuove infrastrutture e nello sfruttamento di nuovi servizi turistici. Un altro aspetto del programma è la partecipazione degli abitanti locali allo sviluppo ecologico sostenibile, per esempio attraverso programmi di conservazione dei siti archeologici e delle aree verdi che li circondano. Le incalcolabili attrazioni turistiche dell’area riflettono la diversità geografica del “Mondo Maya” e la sua importante eredità culturale, passata e moderna, che attraggono gli ecoturisti ed i viaggiatori in cerca di avventura.

(http://www.ccu.umich.mx/mmaya/recorrido/proyecto.html)
   

In pieno accordo con la lettura fornita da Denise F. Brown (1999: 82) del materiale pubblicitario prodotto dagli esecutori del progetto, il cui brano riportato qui sopra costituisce un esempio eloquente, credo che sia lecito pensare che si tratti di una evidente commercializzazione dei luoghi che hanno un particolare significato per i Maya locali, ma i cui destinatari sono soltanto i visitatori stranieri per i quali è stato appositamente costruito un mondo dicarta, fatto di opuscoli e brochure, senza includere nè le radici storiche nè i significati della gente locale che, in alcuni casi, sono gli unici responsabili della sopravvivenza di questi luoghi. Si può dire che si tratta di un incontro di paesaggi culturali in prassi, uno scontro di due differenti interpretazioni culturali:

Come nel caso del colonialismo, questi contatti fra paesaggi culturali si mescolano inestricabilmente con relazioni di potere che possono condurre a cambi imposti con la forza dalla società dominante nei confronti di gruppi e culture di scala più piccola (Denise F. Brown, 1999: 83).

Il gruppo dominante normalmente non si sensibilizza agli impatti negativi provocati dalla sua presenza e dalle sue azioni, concentrandosi solamente sui benefici economici per la nazione ed ignorando che le trasformazioni del paesaggio culturale possono portare a cambi profondi nella società e nella cultura di chi in questi luoghi vive e si riconosce.
   

5. Musealizzazione del territorio e folklorizzazione della cultura

Il processo di musealizzazione del territorio a vantaggio di uno sviluppo dell’ecoturismo, come risulta essere l’istituzione di una riserva della biosfera, può condurre un gruppo culturale, attraverso progetti organizzati da agenti esterni, ad ottenere significativi benefici economici ma, al contempo, può essere considerato un potenziale veicolo di decaratterizzazione etnica (Bartolomé, Barabas; 1996). Sintetizzando i contenuti esposti nei paragrafi precedenti, musealizzazione del territorio nello sviluppo sostenibile, significa dunque far riscoprire i beni ambientali ed archeologici di un’area, a vantaggio della popolazione che la abita, riservando un particolare riguardo all’ambiente naturale, riconosciuto come valore assoluto al quale subordinare tutti gli altri. Per raggiungere tale scopo una comunità locale viene esortata a testimoniare l’antica esistenza degli antenati con la propria presenza caratteristica sul territorio da conservare fornendo una rappresentazione di se stessa in una dimensione folklorica, fatta dell’abbandono dei tratti culturali non ecocompatibili e costruita sull’apprendimento di nuove tecniche produttive ed artigianali prima sconosciute e create appositamente con il fine principale di non recare danno all’ambiente per aderire ai precetti della sostenibilità ambientale. In questo senso la musealizzazione del territorio può essere considerata come causa diretta della musealizzazione della cultura indigena che è valorizzata in questa prospettiva soltanto come testimonianza dell’esistenza di antiche culture preispaniche e mai come espressione culturale degna di conservazione di per sé. All’interno di tale paradigma interpretativo possiamo notare che all’indio scomparso (le popolazioni antiche idealizzate dalla storia) viene attribuita una importanza mitica fondamentale perché è in grado di conferire un prestigio storico al Messico moderno che le comunità indigene attuali dimostrano di non essere in grado di sostenere, essendo completamente estranee alla cultura di un mondo esterno che non viene mai agita nel quotidiano della vita comunitaria e che le porta ad essere considerate dagli agenti esterni soltanto esempi di una condizione di sottosviluppo di ostacolo all’economia nazionale (Bonfil, 1994). I progetti di cui abbiamo parlato nei precedenti paragrafi offrono la imperdibile possibilità ad alcuni agenti del mutamento, quali Governo e ONG, di perseguire i propri fini ideologici idealizzando le culture indie mediante l’attuazione di un compromesso che beneficia economicamente la nazione e conduce allo sfruttamento turistico del territorio nazionale attraverso la sua conservazione da parte delle stesse comunità indigene, accettate e valorizzate come culture, soltanto nelle loro manifestazioni folkloriche, ma sovente decaratterizzate nella loro dimensione etnica più profonda. Abbiamo visto come l’identità etnica e comunitaria dei gruppi locali indigeni maya dello Yucatan sia strettamente connessa a contenuti sacri legati al territorio, simbolo di una cultura che ha ritrovato nuova vitalità nel periodo della rinascita comunitaria di inizio secolo che ha segnato una tappa fondamentale nel riappropriamento di un tessuto culturale comune a fondamento di un’identità che oggi è minacciata da spinte esogene che favoriscono la formazione di una nuova identità, indotta da processi di reificazione culturale che appartiene più propriamente all’idea di sviluppo della società dominante piuttosto che aderire ai modelli tradizionali della cultura locale. Con ciò non intendo dire che la presenza di elementi di origine esterna debba indicare di per sè indebolimento o perdita di autenticità delle culture indigene. Come bene argomenta Bonfil (1994: 198): il problema non sta nella proporzione di tratti originali contro tratti esterni che contiene una cultura in un momento dato, ma piuttosto in chi esercita il controllo sopra tali tratti: i partecipanti di questa cultura oppure i membri della società dominante.E, allo stesso tempo, è necessario determinare se il progetto culturale al cui servizio si mettono i diversi elementi, si dimostra proprio o alieno, ovvero, se parte da uno schema di base di orientamento (che ho chiamato matrice culturale) del gruppo, o da una matrice aliena, imposta, dominante (Bonfil, 1994: 198).

Il caso della riserva El Pilar (cap. V § 2) può rappresentare un significativo precedente per aiutarci a comprendere la musealizzazione di un territorio come causa principale della decaratterizzazione etnica di un gruppo etnico e della ideologia che la sostiene; nelle parole della direttrice del progetto: Vediamo la riserva come un Museo Vivente possiamo scorgere un monito per le comunità di Punta Laguna e Yodzonot Laguna. Infatti se la comunità di Yodzonot continua a mantenere tratti culturali più tradizionali ed un atteggiamento di tiepido entusiasmo ed a volte di diffidenza nei confronti dei progetti di PPY, Punta Laguna invece inizia a risentire delle relazioni intrattenute con la società dominante che possono mettere in pericolo importanti elementi sui quali si fonda l’identità comunitaria. Infatti in quest’ultimo periodo dopo la mancata celebrazione della festa per il santo patrono dovuta a  motivi di dissidio all’interno della comunità, non ha avuto luogo nemmeno la celebrazione del Cha cha’ac, rituale unanimemente ritenuto come espressione massima della cultura maya e pratica strettamente connessa al mantenimento dell’identità etnica dei Maya. Alcune famiglie di Punta Laguna si sono recate a Yodzonot per la celebrazione di questo rituale fondamentale, mentre altre per la prima volta non vi hanno partecipato del tutto. Per altri motivi, anche la diversa considerazione riservata al cenote di Punta Laguna (vedi cap. III, § 1), ha portato alla perdita di un altro tratto culturale tradizionale, quale l’approvvigionamento quotidiano dell’acqua, momento riconosciuto come denso di significati sociali e simbolici (Villa Rojas 1978: 255). Questo punto merita una breve trattazione a parte poiché rappresenta in maniera emblematica un processo di deterioramento di un tratto culturale che ha causato un cambiamento profondo nella concezione e nell’utilizzo del cenote. La nuova collocazione semantica che il cenote ha ottenuto nell’immaginario della gente di Punta Laguna da quando questo è stato sostituito dalle cisterne d’acqua collocate all’esterno di ogni abitazione e riempite da una pompa a motore, ha causato un differente utilizzo del pozzo naturale che, benché non avesse più ragione di esistere come deposito d’acqua, era comunque frequentemente visitato affinché gli spiriti protettori fossero adeguatamente omaggiati con offerte rituali di vario genere, a prova del fatto che nonostante avesse perso la sua funzionalità materiale, continuavano a persistere i significati e le abitudini rituali connesse alla sfera del simbolico. Tale atteggiamento fu anche dettato dal fatto che oltre ai due Kanansayà, spiriti tradizionalmente associati al cenote e simboleggiati da croci in legno, è presente anche una croce di pietra, ritrovata secondo i racconti di un gruppo di anziani del villaggio, dal padre di Don Inacio, fondatore del villaggio e genitore a sua volta di Don Serapio. A tale croce in passato vennero attribuiti poteri straordinari fra i quali quello della parola, concezione sicuramente nata nel periodo della guerra de castas e strettamente legata al mito della cruz parlante e, nonostante tali poteri non fossero più presenti, la croce non aveva visto diminuita la propria importanza a livello simbolico. Oggi il cenote si ritrova a subire una ulteriore traslazione semantica dal momento che è stato destinato a rappresentare una tappa del percorso turistico per essere visitato e ritratto dalle macchine fotografiche dei turisti. Questo fatto ha portato ad un suo allestimento folklorico per migliorare la sua valenza estetica in vista del suo nuovo ruolo destinato allo sfruttamento turistico, ma al contempo ha determinato un progressivo abbandono dell’interesse di una parte della popolazione indigena che ora vede nel cenote soltanto un simbolo appartenente al recente passato, essendo ora sfruttato esclusivamente dalla famiglia di Don Serapio come ogni altra risorsa turistica.

In altre parole, il cambiamento semantico che ha subito il cenote in seno alla cultura tradizionale e la mancata celebrazione del Cha cha’ac, non sono di per sé indice di indebolimento culturale, ma possono essere causa, quando sono imposti dall’esterno, della perdita di elementi fondamentali nella costruzione concettuale dell’identità etnica e comunitaria, ledendo in questo senso il diritto alla differenza culturale. Se l’imposizione di progetti estranei alla cultura delle comunità, infonde nuovi valori in elementi che sono considerati come responsabili principali del mantenimento dell’identità maya (cap. V, § 3), allora la perdita dell’identità può portare ad un pesante impoverimento della cultura tradizionale fuorché poi essere recuperata in una dimensione folklorica, ovvero attraverso un triste percorso finalizzato al recupero di vecchi simboli ormai completamente slegati da ogni significato tradizionale, ma pronto per essere commercializzato e venduto agli ecoturisti come autentico. Tali processi di recupero della cultura tradizionale contribuiscono alla nascita di una nuova identità etnica basata su criteri che trovano fondamento all’esterno della vita comunitaria, nelle logiche della società dominante.

Il processo di reificazione culturale (Scarduelli, 1998), in cui il turismo funge da catalizzatore, crea una nuova forma di identità collettiva (etnica) che asserisce la propria continuità con il passato, ma che in realtà è un manufatto del tutto nuovo, realizzato attraverso l’assemblaggio di frammenti di tradizioni decontestualizzati (Scarduelli, 1998: 162). Questa embrionale identità etnica viene fatta propria soprattutto dall’élite che funge da mediatrice fra i turisti stranieri e la popolazione locale: guide turistiche, funzionari pubblici (Scarduelli, 1998: 162) e in questo caso soprattutto dai membri della organizzazione non governativa. L’interesse delle autorità e della ONG per il patrimonio territoriale ed etnografico di questa zona come di fatto per il resto del territorio della Repubblica messicana, appare come del tutto strumentale; prima che l’equazione folklore uguale vantaggio economico diventasse evidente, le tradizioni locali erano considerate un residuo del passato ed un ostacolo alla modernizzazione. Oggi l’istituzione di progetti locali come quello proposto da Pronatura e di altri su larga scala come il già citato Mundo Maya, agevolano (o più propriamente impongono) processi di reificazione culturale che inducono gli stessi indigeni a concettualizzare le proprie tradizioni attraverso categorie altrui (Scarduelli, 1998: 160).

I cambiamenti socio-culturali imposti dalla musealizzazione di un territorio, possono dunque essere considerati strettamente connessi ai processi di trasformazione sociale che inducono ad una progressiva decontestualizzazione degli elementi tradizionali, destinati ad essere sempre più slegati dal complesso delle pratiche sociali in cui erano inseriti e dalle strutture cognitive da cui traevano il loro senso e ci portano ad intendere la reificazione culturale ed il folklore come profondi segni di decaratterizzazione culturale e fonte di perdita dell’identità etnica . Oggi il cenote di Punta Laguna e le cerimonie ad esso connesse giungono a far parte di una collezione di oggetti che, insieme alla laguna ed alle rovine archeologiche, assumono la sminuita dignità di reperti da museo.

Sebbene oggi le comunità sentano ancora un forte orgoglio nel considerarsi Maya e nell’aderire alla costumbre (così i Maya chiamano attualmente l’insieme delle tradizioni socio-religiose ereditate dagli antenati), c’è da chiedersi se quando verrà istituita la riserva e con essa saranno varati altri progetti minori quali:“Appoggio alla conservazione attraverso la partecipazione al teatro di marionette” e, “Riscatto di valori: corso di ricamo tradizionale maya”, (http://www.pronatura.org.mx/Yucatan/espanol/programas_de_conservacion/), vi sarà ancora la medesima dignità nel ritenersi tali, visto che il folklore si risolve poi in una messa in scena di tratti culturali che sono una produzione di senso più per il turista che per l’indigeno.

I concetti di sostenibilità ambientale ed ecoturismo legati da una forte ideologia verdista possono oggi essere considerati, a mio parere, come una nuova veste del pregiudizio etnocentrico che rischia di diventare veicolo di grandi stravolgimenti culturali all’interno di piccole comunità locali spinte ad un fittizio recupero delle tradizioni in nome di uno sviluppo che spesso coinvolge i membri delle comunità in progetti dei quali non hanno una piena consapevolezza; motivo per il quale tali progetti possono con ragione essere considerarti strumentali. “La spinta esogena al recupero delle tradizioni indigene pretende di affermare, in nome dello sviluppo, una continuità inesistente. Si tratta di una forma di autocoscienza che apparentemente si costruisce in opposizione ai processi di modernizzazione ma che in realtà è indotta proprio da essa”. (Eriksen, cit. in Scarduelli, 1998: 162).

Fabio Pettirino
   


 
 

contesto storicoI Maya peninsulariPunta Laguna e Yodzonot Laguna