I Maya peninsulari: introduzione etnografica
 
 


1. Identità e demografia
   

Gli anni della colonizzazione e successivamente quelli della indipendenza sono generalmente considerati rispettivamente come storia della Nuova Spagna e storia del Messico, relegando in posizioni marginali, in un certo senso fuori dal corso della storia, le vicende delle popolazioni autoctone viste come semplici oggetti dell’amministrazione coloniale o della conversione religiosa.Ciò che ce le può fare percepire come soggetti storici di primo piano sono quelle strategie che essi hanno escogitato per recuperare e mantenere la propria identità culturale, garantendone la sopravvivenza sino ad oggi. In generale il popolo maya ha dimostrato una grande capacità di assorbimento ed adattamento ai nuovi costumi che hanno spesso trovato con facilità nuove interpretazioni ed un costante riaccomodamento negli schemi tradizionali, con il risultato che ha saputo mantenere sino ad oggi una forte identità etnica nonostante le dominazioni che hanno pesantemente minato le fondamenta della sua cultura e che in molti casi hanno decretato la scomparsa di altre culture indigene. La prima e la più immediata di tali strategie è da considerarsi certamente la lotta e la cosiddetta “guerra de castas”, ha rappresentato uno dei momenti più alti della resistenza india. Scoppiata nel 1847, la “guerra de castas” oppose indigeni e bianchi in una spietata e sanguinosa lotta che portò all’uccisione di più di duecentocinquantamila individui, ovvero quasi un terzo dell’intera popolazione dello Yucatan. Sebbene determinato da cause economiche e politiche, soprattutto dal tentativo di sottrarre le terre comunali ai nativi da parte del neo governo liberalista, il conflitto assunse ben presto i connotati di un’insurrezione generalizzata tesa al riscatto etnico e la sua conclusione non si ebbe che dopo più di mezzo secolo, nel 1901, anche se seguirono a quella data altri episodi militari e la pacificazione degli ultimi gruppi ribelli avvenne solo nel 1937.

La ribellione maya assunse sin dal principio le caratteristiche del movimento millenaristico e la sfera del sacro ebbe un ruolo dominante nel catalizzare i valori fondamentali che conferivano senso all’insurrezione collettiva. I gruppi ribelli si organizzarono intorno a figure di profeti che acquisirono il prestigio ritrovando le motivazioni per una rivolta contro i creoli nelle antiche trascrizioni dei libri del Chilam Balam che furono il costante riferimento ideologico della lotta. Tali profeti, in maggioranza sciamani e sacerdoti, ebbero il merito di ritrovare la giustificazione per le insurrezioni in quell’ambito nel quale i conquistatori non avevano mai potuto accedere, ovvero nel profondo delle credenze spirituali e religiose antiche (Bartolomé, 1988). La religione dunque, sebbene risultato di un sincretismo, divenne artefice dell’unificazione degli intenti degli indigeni che attinsero le verità risvegliando antichi riti pre-cristiani che mai avevano cessato di essere praticati in segreto. Tali movimenti politico-religiosi divennero totalizzanti con lo sviluppo del culto della “Cruz Parlante”: una croce ritrovata in un cenote capace di parlare al popolo scelto da Dio per lottare contro i bianchi e per la quale fu costruito un santuario a Chan Santa Cruz, l’odierna Carrillo Puerto, che divenne il quartier generale degli indios rifugiati nei territori del nord-est della penisola.

Anche se la lunga guerra non liberò i Maya dalla sottomissione, essa fu determinante nel fortificare, grazie soprattutto ai suoi aspetti spirituali, l’identità culturale indigena che proprio in questi anni visse un importante momento di riappropriamento culturale senza che questo significasse inevitabilmente un ritorno al mondo preispanico. Nella felice definizione di Bartolomé (una cultura di resistenza che cerca di mantenere la continuità, ristrutturata, ma vissuta come propria) risiede l’importanza di intendere quegli anni di lotta come un momento di riappropriamento di se stessi, della vita di comunità e delle espressioni simboliche. Ed è proprio nella rinascita comunitaria che secondo Jan de Vos (1998: 501) ritroviamo l’origine di molte delle usanze e dei rituali che possiamo osservare oggi all’interno della regione maya. I numerosi culti preispanici, strettamente connessi al mondo contadino persistettero nei villaggi e gli usi rituali riferiti ai campi di mais, alle grotte, ai cenotes e ad altri luoghi sacri dove pregare e fare offerte ai vari dei, ebbero una rinascita insperata. Il mantenimento dei rituali proibiti ed il riappropriamento delle pratiche ereditate dal periodo della colonia, come la celebrazione di feste per i santi cattolici organizzate dai mayordomos contribuirono a reinventare una cultura che i Maya ricominciarono a sentire come propria.

Lotta, spiritualità e rinascita comunitaria furono gli agenti del riscatto culturale indigeno che contribuirono alla riformulazione dell’identità etnica insieme ad un ulteriore importante tratto di identificazione etnica: la lingua.

Oggi il mosaico linguistico rispetto alla sola lingua Maya è molto vario e diversi sono i dialetti in cui si dividono i molti idiomi che appartengono al ceppo maya e che sono parlati ad esempio in Chiapas o in Guatemala. Significativamente in tutta la penisola si parla un solo idioma, classificato come maya yucateco ed esso gode di un prestigio conferitogli nel corso degli anni in particolare da uno sviluppo letterario verificatosi soprattutto nel corso della “guerra de castas” quando i documenti ufficiali erano scritti nella lingua indigena che oggi a differenza di altre lingue indigene, è parlata dai nativi e curiosamente anche da un discreto numero di meticci che lo utilizzano come un elemento di prestigio da esibire nelle relazioni sociali. Questo fatto, si delinea come un curioso fenomeno di prestito culturale che in altre zone del Paese si attua più normalmente al contrario, ovvero con una preminenza sempre maggiore del “castellano” sulle lingue indigene che risentono di un progressivo impoverimento e perdita di prestigio nei confronti della lingua egemone.

Oggi la popolazione maya ammonta a circa settecentomila individui, circa un terzo dell’intero numero di abitanti della penisola e la proporzione non varia significativamente se si restringe l’indagine ai tre stati che compongono politicamente la regione. Campeche, Yucatan e Quintana Roo sono suddivisi in entità amministrative più piccole: i municipi, i quali a loro volta sono a capo di unità territoriali, dette ejidos, ovvero terre coltivabili concesse dal governo dopo la rivoluzione. Non tutti i Maya vivono oggi nei rispettivi villaggi di appartenenza o nelle piccole comunità che si contano numerose in tutta la regione. L’emigrazione dalle comunità rurali verso i centri urbani è un evento frequente e chi ha potuto è emigrato in altri stati della Repubblica in cerca di fortuna oppure ha trovato impiego nelle aree urbane o nella sempre crescente richiesta di manodopera dell’industria del turismo sulla costa caraibica. Le zone rurali hanno chiaramente mantenuto uno stile di vita più tradizionale strettamente correlato alla coltivazione della terra e del mais, il prodotto intorno a cui ruota l’intera esperienza quotidiana delle comunità; qui le usanze della società dominante fanno fatica a farsi largo e resistono oltre alla lingua e alla religione, sistemi di riproduzione culturale, di organizzazione sociale e di credenze magiche e mitologiche che fungono da fattori di resistenza culturale e di identificazione etnica (Bastarrecha Manzano 1994:3).
   

2. Credenze magico-religiose

Abbiamo visto nel paragrafo precedente come le argomentazioni di Bartolomè abbiano indicato nel recupero della spiritualità e dei temi religiosi antichi una delle cause della ridefinizione dell’identità maya. Gli indigeni si definiscono di religione cattolica ma è evidente che le loro credenze religiose derivano da un sincretismo storico che unisce tratti di antiche credenze preispaniche a quelli della religione imposta dalla dominazione spagnola. Come si evince dai capitoli dedicati a questi temi da Bastarrecha Manzano (1994) e Villa Rojas (1987) si può operare una distinzione generale fra le cerimonie agricole e le altre celebrazioni religiose. Ad esempio, le feste dedicate ai santi patroni presentano soprattutto tratti tipici della religione cattolica, si svolgono in date precise del calendario e devono la loro nascita al cosiddetto periodo delle comunità degli indios de hacienda (Jan de Vos, 1998), mentre altre cerimonie, che affondano le radici nella notte dei tempi e per la cui celebrazione si richiede l’intervento di specialisti (X-men), si allestiscono forni sotterranei ed altari tipici che sono un omaggio a dei e spiriti già adorati in epoca preispanica. La cerimonia più importante è senza dubbio il Cha’ Chaac che si svolge con cadenza annua in estate, con lo scopo di richiedere una buona stagione di piogge al dio Chaac. Si tratta di un rituale collettivo ed è presieduto da un x-men, ma esistono innumerevoli altri rituali minori che ogni individuo è tenuto ad assolvere singolarmente soprattutto nella cura della milpa. Ad esempio fin dall’operazione di disboscamento, per ottenere un terreno da adibire a milpa, è necessario chiedere il permesso al padrone della selva, il Yum Balam, al quale vengono poi periodicamente date in offerta cibi e bevande, soprattutto zacà (bevanda tipica a base di mais). Un altro rituale molto diffuso è il Jetz Mek , una sorta di battesimo celebrato all’età di tre mesi per le bambine e di quattro mesi per i bambini, che consiste principalmente nel mostrare gli utensili e gli strumenti legati all’identità di genere del bimbo che, quando diventerà adulto, dovrà utilizzare quotidianamente. Il numero tre è tradizionalmente associato alla figura di genere femminile e trae la sua origine simbolica dalle tre pietre che costituiscono il fogòn, il focolare domestico vicino al quale la donna maya trascorre gran parte della propria vita, mentre il numero quattro è associato alla figura maschile e si riferisce ai quattro angoli della milpa.

Incredibilmente numerosi sono gli spiriti che popolano la selva. I malos vientos sono entità malvagie che possono insinuarsi nei villaggi e compromettere la salute tanto dei singoli quanto quella della collettività. Per impedire loro di nuocere, ai quattro angoli del perimetro del villaggio, in corrispondenza dei punti cardinali, sono posti quattro monticoli di pietre sormontati da una grossa croce di legno che rappresentano il Yum balam e che hanno il potere di proteggere dai malos vientos. Quando la sicurezza del villaggio è insidiata da eventi che vengono interpretati come di cattivo auspicio, viene celebrato un rituale collettivo, il Loh, che consiste in una processione, ripetuta quattro volte, intorno al perimetro del villaggio recitando preghiere e sostando ad ogni monticolo dove vengono celebrati rituali di purificazione che devono impedire ai malos vientos di entrare nel villaggio. Tutte le cerimonie di una certa importanza sono celebrate con l’allestimento di forni sotterranei (piib) dove vengono cotti cibi diversi, generalmente accompagnati da una bevanda rituale ricavata dalla fermentazione, in acqua e miele, di una corteccia d’albero (balché). I kanan’bè sono altri monticoli eretti in ogni sentiero che conduce fuori dal villaggio, simili a quelli disposti in corrispondenza dei punti cardinali; sono spiriti che hanno la funzione di proteggere gli individui che si avventurano nella selva, i quali prima di abbandonare la comunità provvedono a depositare un sasso sul kanan’bè affinché egli sappia della loro assenza dal villaggio e li possa proteggere durante la permanenza nella selva.

La figura del sacerdote cattolico è del tutto assente nelle due comunità in questione, ma per la celebrazione di matrimoni, battesimi o funerali è d’uso recarsi nei vicini paesi per la celebrazione dei rituali cattolici annessi. Nonostante esista una chiesa in ogni comunità, essa non è considerata di grande importanza. Può infatti capitare che nessuno vi si rechi per parecchio tempo salvo quando ci si riunisce saltuariamente per la recita di novene o per depositare offerte dinanzi ad altari letteralmente gremiti di idoli di santi, della Virgen de Guadalupe o raffiguranti Gesù. La cura dell’altare e la recita delle novene a Yodzonot è affidata ad una anziana donna (la rezadora) che riveste una figura piuttosto frequente nelle comunità più isolate dove raramente arrivano i sacerdoti. Decisamente più importanti sono i già citati x-men, conoscitori di antiche pratiche ed unici depositari di una conoscenza sacra che permette loro di officiare tanto rituali collettivi quanto di curare singoli individui da malattie fisiche oppure vittime di azioni di stregoni. Mentre gli x-men operano soltanto con le forze del Bene, esistono persone, dette brujos o hecizeros, la cui identità è sempre sconosciuta, che grazie ad un patto con le forze del Male possiedono poteri che li rendono capaci di trasformarsi in animali o di operare incantesimi maligni.

Vi sono poi molte altre credenze che riguardano esseri che abitano solitamente grotte, cenotes o cavità di alberi. Una riguarda gli aluxes, dei folletti che vivono presso le antiche rovine preispaniche e possono interferire nelle attività umane trasferendosi nelle milpas per ostacolare con dispetti di vario genere le operazioni dei coltivatori, che sono soliti offrire loro del cibo grazie al quale li persuadono ad aiutarli nella cura del campo tenendo a distanza le diverse specie di animali che, nutrendosi anche di mais, sono spesso causa della distruzione di molte piante e della perdita di una grande quantità di prodotto.

Le pratiche religiose, soprattutto quelle inerenti la selva e gli elementi del territorio, sono state determinanti per la rinascita dell’identità comunitaria ed ancora oggi possiamo ritenere l’ambito religioso legato al territorio un elemento di continuità e di identificazione etnica importante, prezioso per il mantenimento dell’identità comunitaria e per la sopravvivenza delle comunità indigene.
   

Fabio Pettirino