La Civiltà Contro l'Uomo
La nostra storia vista prendendo Darwin sul serio
di Michele Vignodelli



Introduzione

Introduzione

   Non avete mai avuto la sensazione che tutto questo mondo di macchine, palazzi, automobili, computer, tasse, calcoli, leggi, graduatorie, orari, pubblicità, mode e ideologie sia una specie di prigione? In questo libro si mostrerà come questa sensazione, scacciata in fretta con qualcuna delle nostre innumerevoli droghe, magari addebitandola a un momento di depressione, corrisponda a una precisa, allucinante realtà. Questa scoperta non verrà da una rivelazione mistica ricevuta su una montagna solitaria, ma secondo quelle precise regole di asettica razionalità che la nostra civiltà ha isolato e sfruttato in modo massiccio per costruire il proprio potere. Isolate artificiosamente molto tempo fa dalla pienezza sensuale della nostra mente, con esiti profondamente disumani ed ecologicamente devastanti, sono diventate molto più corrosive e penetranti di qualsiasi intuizione prescientifica, e sono oggi perfettamente in grado di sezionare col loro bisturi analitico la stessa civiltà che le aveva enucleate e divinizzate nello scientismo, mostrandoci la sua vera natura. Ormai noi crediamo solo a loro; siamo incapaci di ascoltare la verità che nasce dal nostro cuore, soffocata com'è da troppe sovrastrutture chiassose e ipnotiche. L'acido corrosivo del razionalismo, con cui la civiltà ha devastato il pianeta, può essere rivolto efficacemente verso chi lo ha utilizzato per alimentare una frenesia tracotante e suicida.
   A chiunque abbia avuto un animale domestico sarà capitato almeno una volta di chiedersi se la vita in cattività, pur con tutte le sue innumerevoli comodità e sicurezze, sia migliore di quella selvatica. Molti avranno risposto risolutamente di no, pensando che un cane o una pecora siano animali nati per vivere in casa o nell'ovile (o nei loro immediati dintorni), sotto il dominio e l'assistenza degli uomini, tacitando così la propria coscienza. Questa domanda si può tradurre anche in termini più scientifici: il principio per cui ogni specie è altamente adattata all'habitat in cui vive si applica anche alle forme domestiche? Questi animali hanno avuto tempo e modo di adattarsi veramente alla cattività?
   Oggi sappiamo che la risposta è no: un cane o una pecora possono sembrare superficialmente assai diversi da un lupo o da un muflone, ma la differenza genetica è assolutamente minima, persino inferiore a quella che separa due semplici forme geografiche della stessa specie. Il lupo arabo, ad esempio, è geneticamente più vicino al cane che al lupo siberiano. Nonostante qualche adattamento grossolano acquisito nei pochi millenni di selezione domestica, un cane è fatto essenzialmente per vivere come un lupo, e ampi studi etologici hanno rivelato tutte le innumerevoli frustrazioni e nevrosi di questi animali, anche e soprattutto nella apparentemente “confortevole” vita cittadina.
   Come notò K. Lorenz, le forme domestiche presentano semmai, rispetto a quelle ancestrali, degli evidenti segni di degenerazione, di “involgarimento”, sia sul piano fisico che comportamentale. Ciò è dovuto chiaramente, oltre alla selezione artificiale di forme e colori aberranti, al fatto che dipendono dagli esseri umani e che crescono in un ambiente deprivato. Lo stato di totale dipendenza in cui si trovano, oltre ad essere frustrante e innaturale, è anche molto pericoloso. Una volta che l'uomo si è reso indipendente dalla forza motrice dei cavalli, cento anni fa, il loro numero è crollato fino a farne dei semplici cimeli da museo. Il gigante giapponese Sony ha da poco lanciato sul mercato un cane robot ancora piuttosto rozzo, ma che possiede i fondamentali vantaggi di non sporcare, di non abbaiare e di potersi spegnere, ottenendo un incredibile successo di vendita. La rapida evoluzione tecnologica dell'ultimo secolo ha fatto sì che moltissime razze domestiche sono oggi di fatto estinte, anche se è in atto uno sforzo per conservarne qualche esemplare come cimelio genetico.
   Se osserviamo l'uomo civilizzato secondo lo stesso criterio e con il massimo sforzo di obiettività ci rendiamo immediatamente conto che presenta gli stessi sintomi di infantilismo e di nevrosi, dovuti alla sua dipendenza sempre crescente, e ormai assoluta, dalla tecnologia, che lo manovra in mille modi sempre più sfuggenti e pervasivi.
   C. Darwin, con la sua fondamentale intuizione del meccanismo centrale dell'evoluzione biologica, ci ha fornito la chiave del mistero del nostro male esistenziale: la civiltà è un superorganismo autonomo che mostra tutta la dinamica integrata e assertiva tipica di un vero e proprio essere vivente, in grado di evolversi per selezione naturale e competere per le risorse. Grazie alla superiore velocità di trasmissione e mutazione della cultura, rispetto ai geni, la selezione non poteva che affinarne rapidamente la capacità di espandersi sfruttando e “addomesticando” il suo ospite biologico (cioè noi), cosa che è regolarmente avvenuta. Da molto tempo il sistema tecno-economico non è più un semplice strumento nelle nostre mani, ma è una grande macchina fuori da ogni nostro effettivo controllo, che ci strumentalizza in mille modi sempre più pervasivi ed efficienti. Perché e come è nato questo sistema vivente autonomo è l'argomento centrale di questo libro.
   Nella prima parte cercheremo di riconoscere le forme e i modi della nostra schiavitù, i cui profondi danni fisici e soprattutto psicologici tendono a sfuggirci facilmente sia per abituazione che per il vero e proprio lavaggio del cervello a cui siamo sottoposti fin dalla nascita, con cui ci viene inculcato un profondo disprezzo per la nostra natura; senza dimenticare che per la stragrande maggioranza dell'umanità la sofferenza e la degradazione sono immediatamente evidenti a qualsiasi persona sensibile. In modo forse sorprendente, ci si potrà rendere conto di come la schiavitù tecnicistica ha deformato e degradato la fisiologia della nostra mente, recidendo la nostra ancestrale simbiosi con il cosmo, riducendoci a semplici “oggetti” accidentali in un mondo che ci viene presentato come un gelido “meccano” di pezzi sparsi, amorfo, ostile e caotico, trasformandoci in anonime nullità traumatizzate, spaventate e drogate da stimoli abnormi di ogni sorta. In questo modo ci inculca un senso di radicale impotenza e di assoluta dipendenza dalle ideologie (teismo, scientismo, marxismo, consumismo), apparentemente così diverse e antagoniste solo per alimentarsi a vicenda e rendere invisibile il loro fondamentale scopo comune: la nostra militarizzazione in un ferreo asservimento da formicaio, il duro lavoro in cambio di droghe presenti e utopie future, inevitabilmente destinate a tradursi in nuovi incubi e ulteriore asservimento. Perché l'uomo è fatto, in ogni sua cellula e in ogni suo sentimento, per vivere come ha vissuto nei milioni di anni in cui il suo corpo e la sua mente si sono formati, adattandosi a piccole società egualitarie all'interno di immense praterie ricche di fauna. Oggi veniamo ingozzati di sempre più incredibili quantità di informazioni e suggestioni di pronto consumo: dovremmo essere immensamente più saggi e felici dei nostri nonni, invece siamo frastornati, confusi, infantili e superficiali. Questo sovraccarico di impulsi edonistici produce un profondo malessere per la bassa qualità umana delle relazioni, ma genera anche una profonda dipendenza. Non siamo più padroni del nostro tempo e della nostra vita, ma schiavi di un ritmo forsennato che ci divora.

   Successivamente analizzeremo l'origine della civilizzazione, soffermandoci in particolare sul passaggio critico in cui essa è diventata, da semplici idee sparse al servizio dell'uomo, un vero e proprio involucro avvolgente e organico in grado di “addomesticarci”, evolvendo una sempre più abile capacità parassitaria nei nostri confronti, fino a gestire l'umanità come un proprio strumento, che peraltro oggi appare sempre meno necessario e destinato rapidamente a fare la stessa fine dei cavalli. Con l'avvento dell'agricoltura, un modo di vivere completamente estraneo al biogramma umano, la cultura arriva a chiudere attorno all'uomo il cerchio di una struttura pseudobiologica, diventando la sua interfaccia globale nei confronti dell'ambiente, un vero e proprio organismo vivente e autonomo: la “civiltà”. L'antica simbiosi geni-cultura si spezza: l'uomo, insieme a diversi animali, viene catturato dalla nascente “noosfera”, proprio come accadde ai mitocondri imprigionati e schiavizzati dalle nascenti cellule eucariote. Con la differenza fondamentale che a questo punto la cultura, liberata dal pacemaker costituito dagli adattamenti umani, potè sprigionare il potenziale di un meccanismo riproduttivo radicalmente diverso da quello che integrava tutta la biosfera su un passo evolutivo accuratamente calibrato per miliardi di anni sulle dimensioni e i cicli geologici del pianeta, dove aveva prodotto un sistema vivente omeostatico di formidabile ricchezza.
   La civiltà è un corpo estraneo non solo all'uomo, ma ovviamente all'intero ecosistema terrestre, perfetto sistema integrato affinatosi in tre miliardi di anni e fondato su un comune meccanismo centrale: la spirale del DNA. Mentre tutti gli animali e le piante si modificano e si adattano reciprocamente alla stessa velocità, la civilizzazione possiede un ritmo esasperato che le ha consentito un esplosivo successo e il dominio dell'intero pianeta. Sono precisamente le caratteristiche essenziali del cancro, che con la sua crescita esponenziale tende a distruggere lo stesso corpo che lo ospita: un certo organo subisce una mutazione in cui alcune cellule “dimenticano” di far parte di un complesso sistema simbiotico ed omeostatico, aggirano i meccanismi autolimitanti e cominciano a riprodursi in modo rapidissimo ed aggressivo.
   La traumatica devastazione predatoria dell'ecosistema, che continua a crescere in modo esponenziale, e che l'uomo chiaramente non vuole e non può controllare (inebetito com'è dal mito del progresso e dello sviluppo economico) apre davanti a noi due scenari poco piacevoli: un catastrofico “riallineamento” al ritmo fisiologico di Gaia (il pianeta vivente) oppure una meno probabile sostituzione definitiva della biosfera con una inquietante “noosfera”, un mondo post-umano in cui la nostra mente non sarà nient'altro che un cimelio del Pleistocene, rinchiusa nella migliore delle ipotesi in uno zoo virtuale. Non si tratta di una fantasiosa profezia, perché il suo embrione è già presente e ben visibile. Le inevitabili soluzioni tecnologiche alla nostra evidente inadeguatezza costitutiva (siamo “fossili viventi” di un mondo perduto) comportano la nostra graduale sostituzione, già avvenuta, con nostro grande sollievo, sul piano del lavoro fisico. A un certo punto i super-ingegneri nell'ultima suprema stanza dei bottoni si renderanno conto che il sistema funziona da solo, che le loro leve non ne hanno più nessun controllo. Ma nessuno se ne preoccuperà, mentre gli uomini cominceranno a sparire in modo assolutamente indolore. Saranno troppo deboli, infantili e viziati per non rassegnarsi all'inevitabile destino.
   Quello che resterà, comunque, non sarà più “intelligente” di noi. Già un ingegnere (come un politico o uno psichiatra) non è che l'ombra di un'intelligenza umana, chiuso nel suo angolo specialistico e nella sua maschera professionale, imbottito di un brodo di informazioni insignificanti, condizionato e divorato da una coazione ossessiva a sezionare e manovrare cose e persone, da compulsioni narcisistiche, grettamente ideologiche e settarie; un indigeno delle Andamane, con la sua profonda, semplice saggezza e perfino un bambino, con la sua viva sensibilità aperta e sincera, sono e restano gli insuperabili paradigmi dell'umanità, e, quindi, dell'intelligenza. Come lupi, irradiano forza e pienezza interiore di fronte a un branco di cani poliziotto, cani da tartufo, ruffiani pechinesi da salotto e una massa di bastardini alla catena. Per definizione, nulla può essere “superiore” all'uomo nella ricchezza del suo ambiente ancestrale, fatto di animali, alberi, acqua, rocce e nuvole. Fuori di questo mondo essenziale ci possono essere solo delle astrusità aliene, magari incredibilmente sofisticate, ma in fondo insignificanti: se sotto la gelida superficie di Marte ci fosse una formidabile rete neuronale diecimila volte più complessa di un cervello umano, ma senza volto, a chi importerebbe davvero? Chiusa nel suo dominio totalitario del pianeta, in cui ha cancellato ogni resistenza e ogni differenza interna, non sarebbe altro che un'informe ameba paralizzata in un asfittico loop informazionale. Il miracolo dell'intelligenza, come quello della vita, cristallizza entro limiti molto precisi, in un piccolo corpo confinato in un grande e ricco ambiente esterno che lo stimola e lo comprime in molti modi complessi: un eccesso di dimensioni finisce per farlo evaporare nel nulla. Nel nostro tracotante delirio faustiano noi crediamo invece che, dato che la vita ama il calore, allora il pianeta Venere della “cyberutopia” sarà mille volte più ricco e vivo della Terra (così come credevamo che un essere “onnisciente” e “onnipotente” fosse migliore di noi); mentre invece è solo un deserto ribollente di impulsi insignificanti. Un tumore cerebrale cresciuto divorando ferocemente il corpo e l'ambiente che lo ospitavano, fino a raggiungere le dimensioni della Terra, o dell'universo, non è superiore nemmeno al cervello di una mosca: è solo diventato la quintessenza del nulla, preso com'era dalla sua ottusa, incalzante voracità. L'essenza della vita è fatta anche di piccolezza, di limiti che danno una forma e degli scopi, come vedremo. Il gigante monolitico che sta nascendo è comunque condannato dal suo insaziabile, totalizzante titanismo, che se non lo ucciderà traumaticamente nel collasso della biosfera lo porterà comunque verso una paralizzante entropia psicologica.
   Chiaramente il primo scenario, anche se traumatico e doloroso come ogni ritorno alla realtà, è quello di gran lunga preferibile.
   Ma se anche il futuro non ci interessa, già oggi l'uomo più ricco è psicologicamente ridotto a un campo di macerie, tenuto insieme solo dalle droghe di cui è sempre più imbottito. Un po' di consapevolezza del nostro stato di asservimento non può farci che bene.
   Prima di cominciare, un'avvertenza: questo è un viaggio alle radici di noi stessi, in cui gli abiti che ci rivestono devono essere eliminati, fino alla completa nudità; molti dei “valori” che riteniamo più sacri si riveleranno come sovrastrutture costrittive, parte organica del sistema predatorio che ci ha resi schiavi. Questa radicale deprogrammazione sarà per molti spiacevole e forse inaccettabile.

 

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