La Civiltà Contro l'Uomo
La nostra storia vista prendendo Darwin sul serio
di Michele Vignodelli



Una storia istruttiva

Una storia istruttiva

   Un caso davvero esemplare di quello che è avvenuto in tutto il mondo a partire da diecimila anni fa è rappresentato dalla conquista delle isole Chatham da parte dei maori neozelandesi, nel 1835. Quell'anno dei cacciatori di foche australiani comunicarono ai maori l'esistenza di questo arcipelago, descrivendolo come un paradiso ricco di fauna, abitato da indigeni amichevoli e disarmati. I maori così organizzarono subito una spedizione con due navi e novecento uomini. All'arrivo sulle isole trovarono ad accoglierli un piccolo popolo di cacciatori-raccoglitori, i Moriori, composto all'epoca da circa 1600 individui. Essi discendevano a loro volta dai maori, ed erano arrivati lì seicento anni prima. Le isole erano state scoperte dagli inglesi nel 1791; poco dopo cominciarono le visite sempre più frequenti di balenieri e cacciatori: i massacri indiscriminati di foche e l'introduzione di malattie provocarono il primo declino della popolazione indigena, che in origine contava circa duemila individui.
   I maori erano degli agricoltori, organizzati in grandi tribù rette da monarchie, in guerra perenne tra loro e dediti al cannibalismo per la cronica carenza di proteine; ma al tempo del primo arrivo nelle Chatham dovettero abbandonare l'agricoltura, a causa del clima temperato inadatto alle loro colture tropicali. Ritornarono così ad essere un popolo pacifico ed egualitario di cacciatori-raccoglitori, senza re, nobili, sacerdoti e artigiani, che praticava un attento controllo delle nascite; le occasionali dispute tra gruppi avvenivano in una forma ritualizzata e incruenta.
   I nuovi colonizzatori, che arrivarono affamati e stremati, furono accolti amichevolmente dagli indigeni, che gli offrirono cibo e riparo. Ma questa ospitalità non frenò il loro slancio predatorio: pretesero dai Moriori tutta la loro terra, imponendogli la schiavitù; questi ultimi si riunirono tutti in consiglio e decisero di offrire pace e amicizia agli invasori, mettendogli a disposizione una parte della loro terra. Non fecero neppure in tempo a comunicargli la loro decisione che questi cominciarono a scacciarli, uccidendo quelli che opponevano resistenza. Nel giro di pochi giorni gli indigeni vennero quasi tutti uccisi o deportati.
   Altri polinesiani come loro arrivarono qualche secolo prima sull'isola di Pasqua, una terra altrettanto remota: qui però il clima tropicale e il terreno fertilissimo consentiva l'agricoltura intensiva, senza nemmeno l'effetto “ammortizzante” della pesca, vista la scarsa pescosità delle acque prive di barriera corallina. Così la popolazione crebbe fino a creare un degrado ecologico irreversibile, accelerato dal fanatico, disperato culto dei grandi Moai; le guerre e il cannibalismo prosperarono, e si arrivò infine alla catastrofe, cui seguì un drammatico crollo demografico. Anche le Hawaii, quando Cook arrivò nel 1778, si trovavano immerse in una spirale di feroci guerre intertribali, fanatismo religioso e degrado ambientale, accompagnati da generalizzata crisi alimentare e cannibalismo. Situazioni simili si avevano in tutte le isole più grandi (come le Hawaii o le Tonga) dove si trovavano società di livello statuale e agricoltura intensiva, raggiungendo il culmine nella grande Nuova Zelanda, di cui si è già detto: i suoi abitanti erano considerati il popolo più bellicoso della Terra, col volto spesso scarnificato per trasformarlo in una maschera impressionante. In questi arcipelaghi si svilupparono complesse società stratificate, bellicose, maschiliste, schiaviste, con religioni oppressive fatte di severi tabù, contadini malnutriti e sistemi tributari vessatori, a esclusivo vantaggio dei nobili e dei sacerdoti.
   Negli innumerevoli piccoli atolli dispersi, invece (come le Tuamotu), l'agricoltura aveva un ruolo secondario rispetto alla pesca (a causa del rapporto molto superiore tra sviluppo costiero e superficie complessiva, del suolo non molto fertile e dell'impossibilità di irrigare), quindi la densità di popolazione era bassa e non si aveva carenza di proteine; i villaggi erano molto piccoli, con dei “capi” puramente “espressivi”, non c'era nessuna stratificazione sociale e nessuna casta specializzata: erano i classici “paradisi” polinesiani che ancora ci fanno sognare. Libertà sessuale, egualitarismo, cibo che cresceva quasi spontaneamente (pesce, cocco, albero del pane, banane), mentalità aperta, giocosa e pacifica; un impatto dirompente per i poveri marinai britannici del Bounty, schiavizzati dagli ufficiali, da una morale oppressiva, dalla miseria, dalle malattie e dalla guerra, al punto da fargli decidere, pur di restare laggiù, di tagliare i ponti con la madrepatria e di rischiare l'impiccagione.
   I 5000 abitanti della Tasmania vissero in totale isolamento per almeno diecimila anni: erano dei cacciatori-raccoglitori di ceppo australiano (non polinesiano) che i primi esploratori europei descrissero di temperamento aperto, pacifico e felice. Decimati dalle malattie e dai colonizzatori, che li cacciavano come animali nocivi, furono tutti deportati su un'isoletta, dove alla fine si estinsero. I loro antenati in Nuova Guinea (agricoltori) erano invece cannibali, aggressivi e ferocemente maschilisti.
   L'Oceania, con i suoi arcipelaghi isolati, è stata un vero laboratorio sociologico naturale, in cui innumerevoli esperimenti controllati ci offrono un quadro eloquente. Ma anche l'America precoloniale ci dà ulteriori, definitive conferme: basti pensare alla differenza tra i bellicosi indiani coltivatori della parte orientale del Nordamerica e i pacifici raccoglitori della costa occidentale.
   La California, fino alla metà del secolo XVIII, era forse il rifugio più simile al mondo paleolitico ancestrale: qui i cacciatori-raccoglitori non erano stati relegati in un habitat marginale e inospitale, come steppe aride, tundre o foreste paludose, ma vivevano in un ambiente piuttosto ricco, ben isolato dall'influenza degli agricoltori da una corona desertica e montagnosa. I famosi indiani delle Pianure (Sioux, Cheyenne, Comanche, Kiowa, ecc.) pur essendo cacciatori e assunti a prototipo di questo modo di vita attraverso il cinema, non ne costituiscono invece un buon modello: a diretto contatto con le popolazioni protourbane della Valle del Mississippi, e talvolta agricoltori essi stessi, tra il 1680 e il 1750 videro la loro cultura rivoluzionata dall'introduzione del cavallo, molto prima del contatto con i colonizzatori anglosassoni: i villaggi di agricoltori sedentari nelle valli fluviali divennero vulnerabili a incursioni fulminee di guerrieri che erano pressoché al sicuro da inseguimenti e azioni punitive. Molti di questi villaggi vennero abbandonati e i loro abitanti divennero cacciatori a cavallo per autodifesa, come accadde ai Cheyenne, agli Arapaho e ai Crow. Tutti i popoli delle Pianure si trasformarono in allevatori di cavalli e cacciatori “professionali” di bisonti, di cui commerciavano le pelli in cambio di mais e vasellame. L'improvvisa rottura degli antichi equilibri tribali provocò una violenta catena di conflitti. La spiccata attitudine guerriera e i durissimi riti di iniziazione (come la famosa “Danza del sole” che si vede nel film Un uomo chiamato cavallo) sono il frutto di queste profonde contaminazioni e sono tipiche degli allevatori nomadi e degli agricoltori primitivi. Essi seppero resistere strenuamente all'invasione europea, con una ferocia quasi all'altezza dei colonizzatori, perché erano culturalmente preparati all'impatto con popolazioni aggressive ed espansionistiche, numericamente forti e dotate di eserciti a cavallo (tra parentesi, per chi non lo sapesse, è bene ricordare che l'uso di asportare lo scalpo fu introdotto dagli europei, come prova dell'uccisione di un indiano e per riscuoterne la taglia: già nel 1755, a Boston, si pagavano cinquanta sterline per lo scalpo di un indiano maschio di più di dodici anni).
   Pacifici e quasi inermi, i 200.000 indigeni della California non hanno invece lasciato alcuna traccia nell'“epopea” americana, e quindi nel cinema; il loro rapido e totale annientamento fu molto simile a quello dei Tasmaniani e dei Moriori: non una guerra ma un vero e proprio “sport” popolare, un silenzioso massacro che oggi viene considerata la pagina più nera della storia americana.
   Al di là del solito copione universale dei feroci “civilizzati” che distruggono i pacifici “primitivi”, ciò che trovo particolarmente interessante e poetico è il momento in cui gli antenati dei Moriori arrivano in una remota terra disabitata che lacera il bozzolo della gabbia culturale aliena che li aveva resi schiavi; schiavi della zappa, degli eroi, dei caporali e della Terra promessa da conquistare col sudore e col sangue.
   Una autentica liberazione di tutto il loro potenziale umano, che poteva esprimere di nuovo la sua istintiva organizzazione sociale, la sua mistica appartenenza alla natura. Da esseri frustrati, compulsivi, avidi, aggressivi e paranoidi, quasi quanto noi, ridiventarono mistici e sereni, riconquistando l'armonia.
   Sarebbe come se una missione spaziale giungesse su un remoto pianeta ricco di piante e animali commestibili, ma priva di semi di specie coltivate. Noi siamo condizionati a pensare che comunque si darebbero subito da fare per coltivare e allevare delle specie locali, ma in realtà, dopo l'inevitabile trauma iniziale, sperimenterebbero una tale liberazione che non ci penserebbero neppure lontanamente. Comunque, questa strada è per noi definitivamente sbarrata, a meno che non si trovasse un modo per viaggiare all'indietro nel tempo.

   Il prezzo umano dell'agricoltura e di tutte le sue conseguenze fu terribile, riducendo enormi masse in uno stato penoso di oppressione. La rivoluzione industriale rinnovò il trauma a un nuovo livello. Questo formidabile salto di qualità dell'oppressione e della distruttività tecnologica fu certamente alimentato dalla scoperta di immensi giacimenti di carbone nel nord-ovest dell'Europa. Ciò avvenne in seguito all'esaurimento delle foreste inglesi, sfruttate eccessivamente per ricavarne legna da ardere; un tempo il carbone non valeva quasi nulla, non solo perché era sepolto nelle profondità della terra, ma anche perché, contrariamente a quello che si pensa, era considerato un combustibile mediocre, inferiore al legno. La carestia di legna rese conveniente la laboriosa estrazione, che fu rapidamente perfezionata e offrì una sorgente di energia praticamente illimitata, completamente esterna ai cicli energetici della biosfera. Ma questa risorsa non sarebbe certo stata sufficiente se non avesse trovato un terreno culturale adatto. Il terreno era stato preparato dal cristianesimo, che qui aveva mantenuto una forte tensione utopica e moralistica, senza scendere a compromessi paganeggianti con i vincoli tribali e familistici della tradizione, come era avvenuto più a sud. La sua ossessione per le regole astratte e matematiche, per il lavoro e gli orari come argine compulsivo degli istinti, per una Verità trascendente nascosta nella natura diede impulso allo sviluppo di tecniche sofisticate di organizzazione e di sfruttamento.
   Attraverso l'esperienza centrale del monachesimo il lavoro e la preghiera incessanti, e più in generale la programmazione ossessiva del tempo, diventano il modo in cui viene dichiarata guerra all'ozio come “padre dei vizi” (e dei dubbi), impedendo alla bestia istintuale di riaffiorare in superficie: “Il lavoro deve fornire da vivere, in secondo luogo deve far sparire l'ozio, fonte di numerosi mali, in terzo deve frenare la concupiscenza mortificando il corpo” dichiara san Tommaso d'Aquino nella Summa theologiae. Con il monaco Lutero (prima e più ancora che con Calvino) vocazione religiosa e vocazione professionale vengono a coincidere completamente, dal momento in cui viene superata la distinzione tra sacro e profano, chiesa e secolo. I monasteri non esistono più, perché tutti devono diventare “monaci”. La loro residua dimensione familiare viene dissolta nella vasta e anonima “società”, in cui il narcisismo cristiano può dilagare senza freni come puro egoismo. L'interpretazione immediata delle Beatitudini, scorretta ma inevitabile dopo secoli di vana attesa escatologica (“beati i poveri, gli oppressi, ecc.”) darà un senso positivo intrinseco alla condizione di schiavo, di operaio, di lavoratore. La beatitudine non è più nella fine dell'oppressione, ma nell'oppressione stessa.
   Il narcisismo cristiano, tipicamente “adolescenziale”, in cui il singolo si salva senza o addirittura contro la comunità (“odiate i vostri familiari”, “lascia che i morti seppelliscano i loro morti”) instilla lo spirito competitivo che è alla base dell'imprenditorialità. L'idea di una Salvezza individuale allentò i legami familiari e comunitari, intrinsecamente conservatori, che tenevano la gente unita nella solidarietà paesana. Nuove leggi favorirono in Inghilterra la proprietà personale della terra a danno di quella comunitaria, di villaggio, che fino ad allora era stata dominante. Così le persone vennero sradicate dalle loro comunità e costrette a mettersi sul mercato, prestando il loro lavoro al miglior offerente. Le solidali comunità paesane, e infine le famiglie stesse, si dissolvono.
   Dall'altra parte i nascenti imprenditori erano assetati di successo personale, pronti quindi a sfruttare questa massa umana fino in fondo: l'inflessibile educazione puritana e il conseguente vuoto affettivo creava, come abbiamo visto, un'identità inconsistente, un disperato bisogno paranoide di autoaffermazione e un'ossessione compulsiva per il denaro. Questi primi imprenditori accumulavano e reinvestivano tutti i loro guadagni perché la loro ideologia scoraggiava il godimento e l'ostentazione della ricchezza, mentre un consenso di fondo allo sfruttamento si fondava sulla radicata fiducia nella ricompensa ultraterrena. Milioni di operai sarebbero scesi nelle miniere a vivere e morire come topi spinti anche da una solida fede nel Paradiso futuro.
   La rivoluzione industriale fu costruita sul sudore e sul sangue di masse ingannate in modo così subdolo ed efficace da far sembrare la frusta dei faraoni uno strumento di giustizia. Aveva ragione Marx a definire questa ideologia un vero oppio per il popolo, se non fosse che la sua stessa ideologia è un'altra di queste droghe, che sono la sostanza stessa di cui è fatta la civiltà. L'enorme surplus di energia e di tecnologia fu subito rivolto in una campagna di conquista senza precedenti, su scala planetaria. Esso rese anche possibile l'affermazione della democrazia liberale, fino ad allora impedita dalla ferrea gerarchia imposta dal continuo stato di guerra. Ma il prezzo di questa illusoria “libertà”, condizionata in mille modi invisibili e pallido simulacro della libertà originaria, era il conferimento di un potere sempre più grande alla tecnologia, che ha cominciato ad asservirci in modo profondo e irreversibile.
   La massa umana, sempre più inutile e ingombrante, pagherà infine il prezzo del potere immenso che ha dato alle macchine. Vediamo ogni giorno, leggendo i giornali, l'avanzare della “globalizzazione” che integra la cultura tecnologica in una rete mondiale dove lo spazio per gli uomini si va riducendo ai pochissimi super-specialisti di cui ha ancora bisogno, mentre l'efficienza totalitaria e asfissiante del superorganismo planetario li incapsula in caselle sempre più costruite e anguste. Tutti gli altri vengono rigettati in un'esistenza parassitaria e totalmente dipendente (sia pure, nel mondo ricco, come artigiani, stilisti, modelle e quant'altro di effimero e seducente), in un “quarto mondo” di ladri, mendicanti e corpi in vendita, che cresce a vista d'occhio, trasformando il mondo in un'immensa “favela”.
   Ogni “cavo” in più è un laccio che ci lega, un passo avanti verso l'integrazione e l'omologazione del pianeta: quando saremo totalmente “collegati” non avremo più nemmeno un'identità distinta. Guardiamo ad esempio Internet: all'inizio non era che un nuovo giocattolo, un'espansione della libertà individuale, almeno per i pochi che potevano permetterselo; ma quando miliardi di persone vi avranno accesso si trasformerà da giocosa opportunità ad asfissiante necessità, come è già successo con la telefonia mobile. È il sistema con cui la gente diventerà ostaggio, 24 ore su 24, del suo “datore di lavoro”, sempre più globale e senza volto, lo stesso che la condizionerà a ricevere i suoi servizi e i suoi “svaghi”, in un allucinante corto circuito di addomesticamento e spersonalizzazione. Un meccanismo che possiamo vedere già all'opera nella videocrazia berlusconiana, attraverso mezzi primitivi come la televisione e la politica rappresentativa. Il trionfo della Comunicazione Globale Totalitaria è l'annegamento del comunicare vero: gli esseri umani ridotti a manichini spersonalizzati, a neuroni trasparenti del supercervello planetario, che si limitano a ricevere e trasmettere incessantemente e passivamente impulsi sempre più insignificanti e ripetitivi.
   Ancora un altro passo verso il formicaio, tremendamente interconnesso ed efficiente, in cui non esiste più il minimo spazio per la libertà individuale: il sistema sta diventando troppo integrato perché questa parola abbia ancora un qualsiasi senso.
   Lo spazio per i nostri giochi creativi si riduce irresistibilmente, consumato dal moltiplicarsi dei collegamenti che globalizza qualsiasi memoria localizzata. È finito il tempo in cui bastava inventarsi un qualche nuovo trabiccolo e mettersi a produrlo. Il marketing onnipotente di leviatani come la Microsoft ordina la sempre più impotente creatività individuale a semplice snodo intercambiabile delle loro reti “neuronali” di sviluppo dei prodotti e di condizionamento subliminale. Assistiamo di continuo alle fusioni tra le grandi imprese, che stanno raggiungendo dimensioni planetarie, con uno spaventoso potere su ogni altra istituzione. I governi e le elezioni stanno diventando nient'altro che una finzione scenica: il vero potere si è trasferito altrove. La civiltà tecnologica, espandendosi a ritmo devastante su un pianeta limitato, si trasforma in un corpo unico, in un totalitario Leviatano. In Brave New World Aldous Huxley ne tracciò un quadro spaventoso e preciso. In questo formicaio tecnologico l'individuo sarà felice e soddisfatto, perché sarà condizionato fin dalla culla da un indottrinamento ben collaudato, e la contentezza gli sarà messa a portata di mano da psicofarmaci e giocattoli formidabili. Ciò che Huxley non aveva previsto è che alla fine l'uomo stesso diventerà superfluo in questo sistema.

   Non c'è bisogno di sforzarsi per vedere il nostro futuro prossimo, in cui si diffonderanno con la stessa velocità di Internet i cybermaniaci, gli “otaku”, come li chiamano in Giappone, dove sono già un fenomeno di massa, estrema espressione post-industriale del compulsivo narcisismo claustrale. Giovani che passano giornate intere davanti al computer nella raccolta e nello scambio di dati insignificanti sulle loro ossessioni particolari (software, videogiochi, feticismi erotici, rumors borsistici, mode musicali), in cui ogni dimensione ludica, sensuale o creativa è scomparsa, lasciando tutto lo spazio a una divorante compulsione al possesso e alla trasmissione di dati, di un “sapere” totale che è un non sapere più nulla, è il punto estremo della trasformazione di un cervello umano in uno snodo telematico. I media si occupano di loro solo quando qualcuno esce dalla sua stanza e trasferisce sul mondo reale la sua follia, come accadde alcuni anni fa quando Miyazaki Tsutomu, un fattorino ventisettenne che non aveva altre frequentazioni oltre a seimila videocassette e pile di fumetti, torturò quattro bambine, ne trasferì su computer le grida di dolore, le smembrò e ne dispose ordinatamente i pezzi in freezer. Ma in fondo questa è ancora una estrema, disperata manifestazione di umanità, che cerca di sottrarsi all'annullamento totale.
   A questo punto il nostro cervello arriva al limite della sua flessibilità adattativa, rivelandosi del tutto inadeguato a sostenere l'incalzante sviluppo della tecnologia. In pratica, è un vero e proprio fossile vivente del Pleistocene. Gli impulsi digitali stanno esautorando i codici organici di identificazione della realtà propri della nostra struttura mentale preistorica. L'epidemia psicopatologica che si sta diffondendo in tutto il pianeta dipende da questo gap sempre più stridente, in cui la continua perdita di sensualità, conoscenza, sorpresa si accompagna all'aumento dei collegamenti e delle informazioni, dello stress, dell'insensibilità e della noia. Persino i folli “otaku” sono di gran lunga troppo umani e inefficienti: finiscono prima o poi per sottrarsi a questa schiavitù insostenibile.
   La cultura risponde a questa nostra carenza attraverso lo sviluppo di supporti diversi e molto più flessibili. Pochi se ne stanno rendendo conto, ma si sta costruendo sotto i nostri occhi un mondo post-umano, un super-cervello planetario in cui l'uomo è solo un inutile parassita.
   L'“information overload”, l'ingolfamento da eccesso di informazioni e richieste è sotto gli occhi di tutti. In molti si trovano ormai intasati di posta elettronica, anche perché costantemente impegnati a scambiare messaggi frammentari al telefono portatile, con un occhio ai giornali, alla tv, al fax e alle novità del web. La cosiddetta “netiquette”, l'etichetta della rete, impone di rispondere in brevissimo tempo; la spinta in questo senso è molto forte. Se la velocità non cresce, infatti, si viene tagliati fuori da una spietata competizione a chi spara prima il dato, la notizia, la droga della novità, non importa quanto frammentaria e approssimativa: o ti adegui o vieni estromesso. Non c'è dubbio che a questo problema sempre più pressante la tecnologia troverà presto opportune soluzioni, come programmi di gestione della posta in grado di rispondere automaticamente a tutte le richieste più semplici e ripetitive, attingendo a una propria memoria organizzata. In pratica verrà ricostruito dentro al computer un “simulacro” del proprietario, schematico e riduttivo quanto si vuole, ma in un certo senso migliore di lui, perché decisamente più “web friendly” di un fossile vivente della perduta preistoria. L'intelligente animale verrà gradualmente sostituito da uno stupido ma efficiente “neurone” asservito alla logica della Rete.
   Non ci si illuda che l'estrema mostruosità, il collegamento bionico del cervello umano, possa farci sopravvivere; essa verrà sicuramente tentata, perché è l'ultima grande utopia con cui saremo blanditi, ma il suo esito è scontato: sarebbe come attaccare col nastro adesivo un motore a reazione sulle spalle di un piccione. Alla fine il motore si procurerà ali d'acciaio.
   Questo processo ebbe origine già con la scrittura, ma solo oggi è arrivato in procinto di svincolarsi definitivamente dalla biologia. Ciò che è già accaduto al nostro corpo, la cui capacità manipolativa è stata largamente sostituita dalle macchine, presto avverrà anche con la nostra mente. Potrebbe sembrare un fatto positivo: così come noi ricchi occidentali siamo stati liberati della schiavitù fisica del lavoro manuale, saremo liberati dalla schiavitù intellettuale. Solo che a quel punto saremo diventati del tutto inutili. Il numero dei disoccupati (o di quelli a cui è concessa l'elemosina di un “posto” parassitario) è destinato ad aumentare inesorabilmente, fino a quando anche gli ultimi super-specialisti verranno sostituiti dalle macchine, con i soliti osanna di entusiasmo.
   Se pensate che a questo punto potremmo comunque prendere un'ascia e sfasciare tutto, come nell'istruttivo romanzo di fantascienza A come Andromeda, sappiate che già oggi la Rete è perfettamente in grado di sopravvivere a un conflitto nucleare. E nel caso improbabile che ci si riuscisse, le conseguenze sarebbero catastrofiche. In realtà la gente all'inizio si troverà benissimo a vivere da parassiti dei computer, liberi da ogni sorta di lavoro che non sia voluttuario, stucchevole gioco artigianale o teatrale.
   Il nostro inevitabile destino, se non ci sarà una clamorosa batosta ecologica per la strafottenza tecnologica, è quello di ridurci a inutili pidocchi cerebralmente e fisicamente atrofizzati, attaccati solidamente al grandioso albero della civilizzazione. Da parassitati a parassiti. Ma non durerà a lungo: la Rete si libererà di questa zavorra inutile in modo del tutto indolore.

   Come si è detto, la civiltà telematica sta creando delle solide premesse per rendersi del tutto indipendente da noi, sostituendoci gradualmente con delle simulazioni software molto più “stupide”, ma efficienti, plasmabili e sempre più veloci. Cercare di arrestare il progresso verso il dominio dell'intelligenza artificiale è quasi impensabile: siamo completamente dipendenti dalla tecnologia, dal cui continuo sviluppo dipende tutta la nostra società. Nel 1997 una macchina, “Deep Blue”, ha battuto nel gioco degli scacchi il campione mondiale umano. Si avvicina inesorabilmente il momento in cui le macchine chiuderanno il cerchio del loro ciclo vitale. Quanto ci vorrà per arrivarci? Visto il tasso di sviluppo dei calcolatori negli ultimi cinquant'anni, molto poco. Grazie ai recentissimi e radicali progressi nell'elettronica molecolare, dove i singoli atomi e molecole possono assumere la funzione di transistori, intorno al 2030 saranno sul mercato macchine un milione di volte più potenti di un personal di oggi.
   Presto noi non serviremo più, nemmeno come schiavi, saremo solo un limite alla espansione delle idee. Mantenere sulla Terra una biosfera funzionante non avrà più molta importanza (le macchine non respirano ossigeno e non mangiano vegetali). I nostri più profondi valori umani, nati nelle remote società pre-assiali, non sopravviveranno in questa cultura post-biologica, se non come insignificanti relitti.
   Se il Sistema continuerà ad espandersi senza traumi importanti tra non molto l'umanità “sviluppata” diventerà così viziata che le resistenze alla procreazione si diffonderanno facilmente molto più di oggi, trovando un efficace vantaggio competitivo nel fatto che l'uomo e il bambino saranno diventati nella vita aziendale e familiare solo dei grossi pesi inutili; la diffusione di nuovi anticoncezionali, di animali domestici modificati geneticamente per renderli irresistibilmente “teneri”, intelligenti e di lunga vita, ma soprattutto di sesso e bambini virtuali, che daranno tutti gli stimoli piacevoli di quelli veri senza i loro costi “insostenibili”, formerà un complesso semplicemente irresistibile e travolgente. Per la stessa ragione, in questa umanità sempre più annoiata, vecchia, depressa, ipocondriaca e afflitta da una profonda solitudine si diffonderà enormemente il suicidio “dolce”, con nuove droghe che lo renderanno simile a un'estasi orgasmica senza fine, magari dopo una “scansione” della propria memoria per avere l'illusione dell'immortalità in una macabra simulazione disponibile in un cimitero virtuale sulla Rete. Qualcuno lancerà grida di dolore, si svilupperanno lunghe e sterili polemiche che raccoglieranno molti sbadigli. Si formeranno probabilmente dei gruppuscoli terroristici luddisti, ma saranno rapidamente dispersi grazie ai sistemi di controllo totale (tipo “1984”) o costretti all'esilio nel “mondo di fuori”. Quest'ultimo sarà anch'esso sempre più dipendente dal Sistema, che una volta eliminato l'uomo al proprio interno non tarderà ad abbandonare questi derelitti parassiti al proprio destino. In seguito al caos che ne sorgerà, il Sistema sceglierà la “soluzione finale” del problema umano per ragioni di sicurezza. Una volta scomparse tutte le residue “resistenze” alla sua integrazione totale, al flusso delle informazioni, costituite dalle menti e dalle culture umane, il Sistema arriverà rapidamente alla permeabilità completa su sé stesso e quindi al collasso informazionale, il grande cortocircuito che lo ucciderà proprio per quella conquistata “onnipotenza” che equivale a fibrillazione paralizzante, senza nemmeno aver lanciato prima dei propri “semi” verso lo spazio interstellare. Per imparare a riprodursi bisogna essere in molti e sopravvivere alla morte dei propri simili, mentre il Sistema, nella sua immensa, arrogante, ottusa unicità totalizzante, sarà diventato di gran lunga troppo stupido per capire che ciò che per lui è sempre stato il Bene assoluto (l'espansione) finirà per ucciderlo. Come un tumore maligno.
   Il destino remoto del superorganismo informatico non può appassionarci più di quello di una immensa, stupida, informe ameba; una sconfinata potenza tecnologica e comunicativa può solo distruggere la forza, la sensibilità e la bellezza della relativa piccolezza umana. È possibile, comunque, che degli uomini, nascosti in qualche montagna, sopravvivano allo scoppio della grande bolla digitale: svilupperanno un fortissimo tabù verso la tecnologia, e forse potranno ricostruire un'esistenza veramente umana.

   È questa la fine che ci aspetta, a meno che una probabile catastrofe economica o ecologica non arresti lo sviluppo tecnologico. Le idee predatorie che si sono impadronite di noi hanno incontrato i limiti fisici della Terra, e la loro espansione ha subito un rallentamento. Il treno impazzito del progresso ha dovuto rallentare sia perché stava esaurendo il carbone sia perché stava ammazzando il macchinista, ma ora sta avviandosi a costruire una locomotiva “nucleare” per riprendere la sua corsa. Su quella noi non potremo neppure sopravvivere: funzionerà da sola e avrà un'accelerazione da ridurci in poltiglia. Anche se il treno del progresso si trova a un passaggio critico, in cui ha dovuto rallentare leggermente, sarebbe ridicolo pensare di approfittare di questa “finestra” per abbandonarlo in massa: il “luddismo” moderno non è che l'ennesima utopia, capace di generare ulteriori aberrazioni e crimini. Un ammutinamento del Bounty su scala planetaria sarebbe bellissimo, ma avrebbe conseguenze apocalittiche.
   La servitù tecnologica sarà ancora per molto tempo nel nostro destino. La natura è ormai ridotta a una riserva naturale a rischio; sulla Terra vivono almeno sei miliardi di persone, seicento volte il numero dei tempi pre-agricoli, che continueranno a crescere come minimo fino a dieci miliardi nel 2050. Nessuno ha idea di come si potrà dar da mangiare a tutte quelle persone senza distruggere l'ecosistema terrestre. Non ci si illuda di poter intervenire drasticamente all'ultimo momento, quando il problema comincerà a farsi sentire sul serio: allora sarà già troppo tardi. La popolazione, infatti, cresce in modo esponenziale, così che dai primi segni di crisi al tracollo c'è un tempo incredibilmente breve. È un'esperienza che è già stata fatta diverse volte, con animali introdotti su isole remote. È ovvio quindi che dobbiamo continuare a sviluppare tecnologie, ma almeno dovremmo smetterlo di farlo per stupide e allucinanti utopie come la colonizzazione dello spazio o impianti bionici per il collegamento in Rete del cervello umano.
   L'unica possibilità di sopravvivenza umana degna di questo nome è che idee eco- e psico-compatibili prendano il controllo della “locomotiva”, dirigendola su una difficile traiettoria di rientro morbido. L'ossessione analitica, nata dall'esigenza predatoria di sfruttare e conquistare il mondo, si è rivolta verso sé stessa e ha cominciato a generare una consapevolezza capace di attenuare la virulenza predatoria, un po' come succede ai conigli confinati su una piccola isola, dove cominciano lentamente a diffondersi geni per la riduzione della fertilità e delle dimensioni.
   Si sta lentamente diffondendo un “ethos” olistico nella scienza che va al di là dell'assillo riduzionistico e tecnicistico a sezionare e dominare la natura: si esprime nella conoscenza dell'uomo e del suo ambiente, non nelle sue molecole ma nella sua storia, nelle sue passioni, nella sua etica innata. Nell'uomo sa riconoscere un essere vivente che, come gli altri, ha determinate attitudini genetiche ed esigenze ecologiche, fino ad osservare come esso viene penosamente soggiogato, drogato e blandito dai nuovi replicatori che si sono insediati nel suo cervello. Le ideologie, invece, come lo scientismo utopico, sono tutte accomunate dalla precisa volontà di avvilire e reprimere la natura biologica dell'uomo, inducendolo a provare orrore del suo essere “animale”, proprio perché sono espressione di una precisa volontà di asservimento e sfruttamento. Grazie al nostro formidabile sviluppo scientifico qualcuno sta diventando consapevole di quanto questo sistema ci sia estraneo e profondamente nemico, una minaccia per la sopravvivenza stessa della vita biologica. Ciò incrina i suoi meccanismi propagandistici, con cui ci aveva sempre facilmente plagiato attraverso l'illusione di un paradiso a venire. Solo così la tecnologia potrebbe anche ritornare a essere un nostro strumento, invece del contrario. Ma è evidente che queste idee non saranno molto attraenti fino a quando non si verificherà una crisi ecologica o economica di portata globale.
   Oggi vediamo attorno a noi alcune persone straordinariamente sagge, essenziali, deprogrammate, più vicine a un boscimano che al loro stesso padre, i cui “successi” predatori e tecnocratici essi vedono adesso come sconfitte; ma anche una marea montante di replicanti lobotomizzati di fronte ai quali mio nonno analfabeta e schiavo del feudo era un uomo libero e saggio. Ed è grazie a questi terminali umani del Sistema che ci arriva il cibo in tavola e il gas nella caldaia.
   Imperialismo, sessismo, integralismo, consumismo, tecnocrazia, “Grande fratello” sono parole chiave coniate in Occidente proprio perché in Occidente ne abbiamo vissuto gli sviluppi più perversi pur conservando la possibilità, con la nostra colonizzazione planetaria, di confrontarci con innumerevoli “altri”. Ma sono parole che stanno cominciando a risuonare nel vuoto, perché tra poco non ci sarà più alcun “noi” e alcun “altro” su cui misurarsi: sta nascendo un Assoluto a cui nessuno potrà sottrarsi. Ce ne sono già i segni: chi non si allinea alla “netiquette” scompare. Chi non ha un lavoro regolare, il cellulare, la carta di credito, la posta elettronica, e domani il posizionatore satellitare e il lettore cerebrale, non esiste più. Nella realtà virtuale non c'è posto per chi perde tempo ad ascoltare i propri pensieri, a chiacchierare con i familiari e a coltivare le proprie sensazioni, senza trasmettere e ricevere impulsi a tempo pieno. Non c'è spazio per riverberazioni cerebrali, per un'attività mentale che si escluda egoisticamente dal flusso globale dell'informazione.

   Il futuro appare irrimediabilmente grigio; cerchiamo quindi di vivere questa nostra vita da servi con la piena consapevolezza della nostra servitù, dei valori più autentici e profondi che sono stati sepolti sotto montagne di denaro e droghe ideologiche. Questa consapevolezza può darcela solo la conoscenza del nostro passato, ma non certo quella che si impartisce a scuola, tronfia di retorica idealistica. Essa non può restituirci la perduta serenità, ma almeno può darci la dignità del distacco dalle stupidaggini che siamo costretti a fare e a pensare.
   Mi auguro almeno che d'ora in poi qualcuno cominci a guardare a tutte le “meravigliose” strutture simboliche e tecniche che ci avvolgono e ci blandiscono con una buona dosa di sospetto. Parafrasando un famoso detto di Samuel Butler, l'uomo civilizzato non è più nient'altro che il mezzo con cui le macchine e i programmi producono sempre più macchine e programmi.

 

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