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Il Pappagallo del Capitano |
CAP. VII Gli animali del bosco
Il giorno dopo la mamma aveva riassettato
lo studio, fatto rimettere il vetro al quadro del veliero nel mare in tempesta
e riempito di nuovo il cuscino con piume d'oca. Tutto insomma era tornato
come prima. Ma la mamma aveva poi chiuso a chiave lo studio: "Non ci si
va, se non ci sono anch'io", disse. E così venne chiuso l'argomento
e la pace tornò in casa. Pietro tornò a giocare a palla con
i suoi amici e Sara con le sue bambole passava il pomeriggio canticchiando
e parlando con loro.
La sera, dopo cena, Pietro portò
il discorso su Cocorito: "Sai mamma quanto è bravo Cocorito e quanti
proverbi sa. Perché non ci porti di là nello studio del nonno
e provi tu a raccontarci una storia? Povero Cocorito è tutto il
giorno che è da solo."
Mamma Susanna sorrise. Non ci credeva
molto che Pietro fosse preoccupato per Cocorito. In realtà aveva
voglia di sentire una storia. Sara questa volta fu d'accordo con il fratello:
"Sì, dai, mamma, contaci una storia da Cocorito."
Fu così che la mamma prese
la chiave dal chiodo alto (perché non ci arrivasse Pietro) dove
l'aveva attaccata e aprì lo studio.
Cocorito non sembrò a dir
vero entusiasta dell'idea. Forse stava sonnecchiando. Infatti aveva un
occhio chiuso e la cresta abbassata. Fatto sta che emise una specie di
grugnito e non rispose al saluto cordiale di Sara e di Pietro: "Buona sera,
Cocorito. Buona sera."
Cocorito sbruffò, scosse
le penne e si rassegnò.
Pietro mise lo straccio nero sullo
specchio e Cocorito, anche se di mala voglia disse, a voce roca e bassa:
"Voglio una storia."
"Che storia ci racconti mamma?
Ci conti quella...", disse Sara.
"Non cominciamo a litigare ora
per la storia. La storia la scelgo io e voi due state ad ascoltare, se
no... a nanna subito."
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Nel paese lo chiamavano Giovannone. Era grande e grosso, con due manaccie che se stringevano una mano per salutare quasi quasi la stritolavano. Viveva da solo in una vecchia cascina. Nel paese la gente gli voleva bene, ma stava un po' alla larga, perché un po' strano Giovannone lo era. Passava tutto il suo tempo o nel suo orto o nel bosco. La sera poi era così stanco che raramente andava all'osteria a bere un bicchiere di vino assieme agli altri. In paese ci andava la domenica, vestito da festa - si fa per dire - e cioè con una vecchia giacca di velluto che gli stava stretta, un grande fazzoletto a quadri attorno al collo ed un cappello di feltro con infilata una piuma di gallo cedrone.
Quando i compaesani lo incontravano
che tornava dal bosco aveva sempre sulle spalle un sacco in cui si muoveva
qualcosa, e si sentivano anche dei rumori nel sacco. "Cosa hai preso oggi,
Giovannone?"
Ma lui si limitava a ridere e a dire:
"Ho preso, ho preso."
Giovannone, forse perché viveva
sempre da solo, non era di molte parole. Però conosceva il verso
di molti uccelli ed il gridio di tanti animali del bosco.
Quando arrivava a casa con il sacco
con qualcosa che si muoveva, andava dritto dritto dentro un'enorme gabbia
che aveva costruito dietro casa entro il recinto in cui aveva anche il
suo orto. Una volta dentro, slegava la corda che lo chiudeva, alzava il
sacco da sotto e rovesciava il contenuto per terra. Quel contenuto o si
metteva a correre o se ne svolazzava su per la gabbia tutto spaventato.
Giovannone era infatti un esperto cacciatore
di animali vivi. Li portava a casa e li metteva in gabbia. Ormai ne aveva
molti, di tutti i tipi, uccelli, roditori, conigli selvatici, volpi, anche
un lupo che però teneva in una gabbia separata. Per catturare gli
animali Giovannone costruiva delle trappole.
L'altra passione di Giovannone era
il suo orto. Era una meraviglia, e tutto il paese glie lo invidiava. Aveva
delle aiuole tutte uguali a rettangolo. Vi seminava l'insalata, il crescione,
il finocchietto, i pomodori, gli zucchini, i fagiolini da cogliere verdi
ed i fagioli che bisognava aspettare che seccassero sulla pianta. Prima
le fave, poi finite le fave i
pomodori, e così via ogni stagione le sue verdure. In un angolo
dell'orto vi erano delle piante di carciofo, in un altro delle grandi zucche.
Tutto intorno all'orto, in modo che non facessero ombra alla verdura, vi
erano delle piante da frutta. Pere, albicocche, susini, noci.
Ma, soprattutto, Giovannone andava
orgoglioso di un grande melo che faceva ogni anno delle bellissime mele
rosse, sempre sane, senza che ci fosse il verme dentro, tanto Giovannone
le curava e le guardava ogni giorno. Le puliva una ad una quando ancora
erano verdi con uno straccetto bagnato di un liquido che si era fatto lui
con le erbe del bosco e che teneva lontano i vermiciattoli, le mosche ed
altri insetti.
Alla
preparazione delle trappole lavorava la sera, in casa. Costruiva delle
gabbie di legno con una grande porta alzata, legata con una molla ad un
uncino interno in cui attaccava o del salame o del formaggio parmigiano
o gorgonzola a secondo dell'animale che voleva catturare. Il salame serviva
per i piccoli topi albini cui invece non piaceva il formaggio. Alle puzzole
piaceva l'odore del gorgonzola. Il parmigiano attirava le donnole. Le gabbie
che faceva erano più o meno grandi a seconda degli animali che voleva
catturare. Poi nascondeva la trappola bene sotto delle foglie secche e
lasciava solo visibile l'ingresso. Così la povera bestiola, attratta
dal profumo del cibo entrava nella trappola, mangiava l'esca e trac...
scattava la molla e giù la porta.
Per i conigli selvatici e per le lepri,
invece, Giovannone usava un altro sistema. Prendeva le più belle
carote del suo orto, quelle più fresche e profumate e andava al
limitare del bosco verso sera. Era allora che le lepri ed i conigli selvatici
rientravano nelle loro tane nel bosco dopo aver corso per tutto il giorno
per i campi. Nell'autunno era però sempre più difficile trovare
cibo e la sera le lepri ed i conigli rientravano nelle loro tane stanchi
ed ancora affamati. Era in quel periodo che Giovannone andava a cacciarle.
Si nascondeva in qualche cespuglio al limitare del bosco, perché
era di lì che dovevano passare per rientrare nelle loro tane. Metteva
il sacco aperto con in bella vista le carote. La lepre od il coniglio selvatico
che passava da quelle parti sentiva il profumo forte della carota e non
sapeva resistere. Forse era rischioso, ma aveva tanta fame. Così
si infilava con la testa nel sacco a mordere la carota. Ah, che buona!
Ma Giovannone allora saltava fuori dal cespuglio e ..zac.. chiudeva il
sacco. Qualche volta la lepre riusciva a scappare, ma spesso ci rimaneva.
E così la grande gabbia dietro
casa di Giovannone si riempiva ogni stagione di bestiole nuove. Per gli
uccelli usava delle trappole differenti. Costruiva delle reti di filo molto
fine e quasi invisibile. Andava poi nel bosco e tirava la rete tra due
alberi. Gli uccelli che
per caso passavano di là infilandosi nello spazio fra i due alberi
rimanevano impigliate nella rete. E non c'era verso di riuscire a scappare
via. Anzi, più il povero uccello si dimenava, più si ingarbugliava
nella rete. Bisognava aspettare che passasse di là Giovannone a
toglierlo dal garbuglio e a metterlo nel suo sacco.
Per gli scoiattoli usava un metodo
ancora diverso. Prendeva dei vecchi bidoni di latta a pareti molto lisce,
gli toglieva il coperchio e li interrava nel bosco fino a che il bordo
del bidone arrivava a filo terra. Copriva poi il buco che così rimaneva,
con dei fili di paglia e del muschio. Sopra poi ci metteva delle noci e
delle nocciole, fino a farne un bel mucchietto. Era difficile per
uno scoiattolo che passasse di là non venire attratto da quel piccolo
tesoro. Ci saltava sopra tutto felice e patapumfete.. la paglia cedeva
sotto il peso ed il povero scoiattolo precipitava nel bidone. Siccome le
pareti erano lisce, la bestiola non riusciva a saltar fuori. E continuava
inutilmente a gridare aiuto, finché in effetti qualcuno arrivava
ad aiutarla. Ma era il grande e grosso Giovannone, che la salutava rifacendo
lo squittio dello scoiattolo, e lo ficcava dentro al sacco.
La cosa andava avanti così da un bel po' di tempo. Giovannone non uccideva i suoi animali, ma li teneva in gabbia. Ma questi non erano certo contenti di starsene là tutto il giorno, anche se Giovannone portava loro da mangiare e si intratteneva con loro rifacendo il verso di ognuno.
Stanco di quest'andare delle cose,
un bel giorno il re del bosco, un vecchio
cervo, radunò il consiglio degli animali, e disse: "Qui bisogna
fare qualcosa per punire Giovannone e per insegnargli che è meglio
che la smetta con le sue trappole. Tu, vecchia volpe, che sei la più
furba di tutti noi, prepara un piano d'attacco. Poi vieni a raccontarcelo
e noi agiremo tutti insieme e tutti d'accordo."
Qualche giorno dopo la volpe andò
dal re cervo. Parlarono a lungo e in gran segreto. Non sappiamo quale piano
gli avesse proposto la volpe, ma uno scoiattolo che se ne stava su un ramo
non troppo lontano, raccontò poi che mentre la volpe parlava si
vedeva il cervo che scuoteva la testa come per dire: "Bene, bene, faremo
proprio così."
Il giorno dopo il cervo mandò
a chiamare il capo delle lumache del bosco.
Anche qui gli parlò in segreto. Era infatti importante, perchè
il piano riuscisse, che Giovannone non ne venisse a sapere niente. Se gli
animali del bosco avessero saputo quali mosse il piano prevedeva ne avrebbero
parlato tra di loro, magari qualche fringuello ne avrebbe fringuellato
con qualche amico. Giovannone, passando di là li avrebbe sentiti.
E poiché lui conosceva come fringuellavano i fringuelli avrebbe
capito ed allora addio sorpresa.
La sera stessa del giorno in cui il
cervo aveva parlato con il capo lumaca si
vide una lunghissima colonna di lumache correre - si fa per dire, insomma
andare alla massima velocità con cui vanno le lumache - verso l'orto
di Giovannone. In gran silenzio - e quando mai le lumache hanno fatto fracasso?
- scavalcarono il muro che cingeva l'orto e si diressero sull'aiuola dell'insalata.
E lì, apriti mascella! Che buona che era l'insalata. Per di più
avevano ricevuto l'ordine dal capo di mangiarla tutta, di non lasciarne
neanche una foglia. Prima dell'alba, il lavoro era finito, e così
le lumache riscavalcarono il muretto e via al trotto (avete mai visto come
trottano le lumache?) verso il bosco.
Al mattino, come al solito Giovannone va a fare un giro per il suo bell'orto e - apriti cielo - come si mise a gridare quando vide cosa era successo alla sua insalata. Non ne era rimasta neanche una foglia. Chi sarà stato? Una lunga striscia di bava luccicante al sole si vedeva per terra fino al muretto e da lì proseguire fino al bosco, dove poi si perse in piccole tracce, poi più niente. Giovannone seguì le tracce fino al bosco, e si chiedeva perché, perché mai le lumache improvvisamente se l'erano presa con la sua insalata. Ma non capì. E così già che era nel bosco andò a vedere le sue trappole. E mise nel sacco che portava sempre con sè uno scoiattolo ed una martora che erano finite in due delle gabbie che aveva nascosto tra le foglie.
Quello
stesso giorno il re cervo chiamò il capo degli scoiattoli. Proprio
loro, visto che quel giorno era stato un piccolo scoiattolo che era caduto
nelle trappole di Giovannone. Anche qui il colloquio fu segreto. Ma alla
sera, al chiaro di luna, se uno si fosse trovato al limitare del bosco,
avrebbe visto delle ombre piccole uscire furtivamente da tutti i cespugli,
riunirsi in un grande gruppo e poi di corsa - proprio di corsa, perché
gli scoiattoli sanno correre - via verso l'orto di Giovannone. Scavalcato
in due salti il muro si arrampicarono tutti sul grande noce dove ormai
le noci erano quasi mature. Che buone quelle noci. Un po' ne mangiarono
lì sul posto. Ma il
capo scoiattolo ordinò di smettere di mangiare, che non avrebbero
fatto in tempo a far fuori tutte le noci in una sola notte. E poi avrebbero
anche fatto indigestione. Ordinò invece di far cadere tutte le noci
per terra. Quando neanche più una ne rimase sull'albero, con un
fischio il capo scoiattolo chiamò tutti. Le noci vennero raccolte
e messe insieme a fare un gran mucchio. Poi il capo ordinò di formare
una lunga fila indiana verso il bosco. Gli scoiattoli erano così
tanti che la fila dall'orto di Giovannone arrivava fin dentro al bosco.
Allora, l'ultimo della fila, quello che era rimasto vicino al mucchio di
noci ne prese una, la passò al suo vicino, questi al suo vicino.
E così, di mano in mano, la noce arrivò fino al bosco. Poi
una seconda noce, poi una terza, e così via. Il capo scoiattolo
era lui che dava il ritmo: "via una, via un'altra, via una, via un'altra."
E così per tutta la notte. Ormai spuntava l'alba e bisognava fare
in fretta. Era rimasto ancora un mucchietto di noci, ma il capo ora accelerò
il ritmo. "Via una, via una, via una." E a poco a poco il mucchio sparì.
Prima che il sole sorgesse tutte le noci formavano un bel mucchio nel bosco.
Gli scoiattoli di corsa lasciarono
l'orto di Giovannone, raggiunsero il bosco e poi a poco a poco, ognuno
di loro si portò nel nido la sua parte di noci. Dopo un po' non
se ne vide in giro neanche più una.
Figuratevi la disperazione di Giovannone quando si accorse, guardando il suo albero di noci che non ve ne era su più neanche una. Anzi, no, qualcuna c'era rimasta, ma erano quelle marce. Agli scoiattoli infatti non piacciono le noci marce. Dalle tracce di zampine sul terreno Giovannone capì che era opera di scoiattoli. Ma perché proprio loro, ma perché proprio a lui? Giovannone non capì e, un po' per consolarsi, ritornò nel bosco. Quella volta trovò nelle reti un paio di storni. Li prese, li mise nel sacco e se ne tornò a casa, triste, triste.
Verso l'imbrunire il cervo mandò
a chiamare il capo degli storni: ora tocca a voi, disse. E questi allora
fischiò per chiamare tutti gli storni a raccolta.
Dopo un po' il cielo si rannuvolò. Ma non era una nube. Era uno
stormo di storni denso come una nube. Dopo avere volteggiato un po' nel
cielo lo stormo calò come una saetta sull'orto di Giovannone. In
picchiata qualcuno si diresse verso il filare di uva di moscato nero d'Amburgo
cui Giovannone teneva tanto e che già cominciava a maturare. Altri,
sempre in picchiata verso le piante di fagioli. Erano ormai secchi e si
poteva con una beccata togliere un fagiolo alla volta dal baccello. E così
fecero. Fu un gran volare avanti ed indietro con i semi di fagiolo nel
becco per poi lasciarli cadere nel bosco dove ci avrebbero pensato poi
a mangiarli aiutati da altri uccelli e dagli insetti. Gli acini d'uva invece
li mangiarono sul posto e ne fecero una scorpacciata.
Questa volta Giovannone quando vide
cosa era successo nel suo orto, si mise a piangere disperato. Ma non aveva
ancora capito. Perché proprio a lui tutte quelle disgrazie? Per
consolarsi andò nel bosco, ma tornò a casa ancora più
triste. Quella volta le trappole erano rimaste vuote.
Guardandosi intorno nell'orto c'era
di che disperarsi. Per fortuna gli era rimasto il melo, l'albero più
importante, quello di cui era più fiero con tutte quelle belle mele
rosse che lui curava e puliva una ad una ogni giorno.
Anche quel giorno lo fece. Erano belle, sane, nessuna traccia di vermi.
Le avrebbe colte fra una settimana e poi le avrebbe messe nel solaio per
l'inverno.
Andò poi nella gabbia grande
in cui teneva tutti gli animali che aveva catturato. Gli animali lo guardarono
in silenzio. Strano, di solito squittivano, strillavano, fischiavano. Questa
volta niente. Strano, pensò Giovannone. Ma ancora non capì.
Quel giorno il re cervo decise di dare
il colpo di grazia. Dopo quello, sicuramente Giovannone avrebbe capito
il messaggio che gli arrivava dal bosco. Il cervo chiamò il capo
dei bruchi. Ve ne erano tanti nel bosco. Non
erano proprio gli insetti più amati dagli altri animali. Ma anche
loro dovevano contribuire per il bene di tutti. E così quella sera,
dopo aver parlato con il re cervo il capo dei bruchi fece passare di bocca
in bocca un ordine a tutti i bruchi: "Trovarsi la sera tutti nell'orto
di Giovannone e là attendere ulteriori ordini." Come
facciano i bruchi a parlare tra loro non si è ancora ben capito.
Fatto sta che quella sera nel bosco di bruchi ce n'erano a migliaia. Il
capo dei bruchi, quando li vide si rallegrò: "Bravi, bene. Ed ora
tutti sull'albero di mele. Dovete entrare in ognuna delle mele e sforacchiarla
più che potete. Poi al mio fischio tutti via, ognuno per i fatti
suoi".
Al mattino di bruchi neanche una traccia.
Ma le mele? Oh le mele! Qualcuna era caduta per terra già tutta
marcia, le altre che erano rimaste sull'albero erano tutte bucate, ed invece
di stare belle tese e fiere attaccate al picciolo, penzolavano giù
tristemente. Sarebbe bastato un po' di vento per farle cadere.
E
quando Giovannone quel mattino si alzò, andò nell'orto con
uno straccio in mano per ripassare ad una ad una le sue belle mele e pulirle
della rugiada, per poco non ci restò secco. In quel momento tutti
gli animali nella gabbia si misero ad urlare a squittire, a fischiare,
a grugnire.
Giovannone finalmente capì.
Andò alla gabbia, l'aprì e con la scopa in mano fece uscire
via tutti quanti: "Fuori fuori, gridava, via da qui. Vi ridò la
vostra libertà, via da qui."
Poi andò nel bosco e tolse
tutte le gabbie e le trappole e liberò quegli sfortunati che vi
erano rimasti intrappolati. Le gabbie le gettò nel fuoco e le bruciò.
Da allora Giovannone non ebbe più guai. Ricoltivò il suo orto che venne su più splendido che mai e fu la meraviglia di tutto il paese.
"Mi sai dire Pietro - fece a questo
punto mamma Susanna - o lo sai tu Sara che cosa aveva finalmente capito
Giovannone?"
Ma Cocorito non lasciò tempo
né a Pietro né a Sara di cercare cosa rispondere alla mamma.
Si rizzò, si increspò la cresta rossa, si schiarì
l'ugola e poi strillò più forte che poté:
Chi la fa, l'aspetti. Chi la fa l'aspetti.
"Sentiamo un po', disse mamma Susanna,
quale sarebbe la morale che traete voi dalla storia. Tu Sara?"
Sara non ebbe dubbi. Subito disse:
"Se Pietro strappa i capelli alla mia bambola, io gli buco il pallone."
Il pappagallo che sembrava si fosse
ormai disinteressato dei presenti, a quella risposta di Sara, sentenziò:
Occhio per occhio, dente per dente.
"La tua, Sara, sarebbe proprio una
vendetta. Bisogna invece anche saper perdonare. Forse la storia dovrebbe
insegnare a stare attenti prima di fare delle cose, a pensare alle conseguenze."
A questo punto Cocorito si scatenò.
Non scherzare con l'orso se non
vuoi essere morso
Chi semina spine non vada senza
scarpe
Chi scava la fossa agli altri
vi cade dentro egli stesso
Chi scherza con il gatto non
si lagni se è graffiato
"Scappiamo, scappiamo - disse la
mamma - A letto, a letto, subito, tutti, se no Cocorito non lo ferma più
nessuno." E così dicendo tolse lo straccio nero dallo specchio e
con una piccola sculacciata, una con la mano destra e l'altra con la mano
sinistra, spinse Sara e Pietro fuori dallo studio del nonno, su per le
scale, prima in bagno e poi a letto.
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