Caro Claudio,
avevo rimosso quel mio tentativo di scambio risalente al febbraio scorso,
ad essere onesto, ma come si suol dire meglio tardi che mai.
Ad essere sinceri in questa lunga email non trovo molto altro che un piccolo
gioiello formale elettronico, nel quale avverto un costante autocompiacimento
(e ne hai ben donde, considerando la tua indubbia attitudine alla scrittura
e la tua vasta cultura). Avrei preferito parlare di Jim Morrison, che però
mi sembra essere un argomento marginale... va a finire che l'oggetto di cui
ti si sospetta ignorante non lo conosci per davvero!
Visiterò con piacere la pagina che hai linkato.
Colgo l'occasione per augurare a te ed alla tua famiglia un sereno Natale
ed un 2005 pieno di successi (e di concerti).
Con affetto,

ARES

 

Fedro:

« Che ti sembra, o Socrate, del discorso? Non è stato detto in maniera fuori dell'ordinario e per tutte le altre cose e per la forma? »

Socrate:

« Divinamente, o amico, tanto che ne sono rimasto sbalordito. E questo io ho provato per opera tua, o Fedro, rimirando te, poiché mi sembrava che tu ne gioissi tutto, mentre lo leggevi. In verità io ti seguivo convinto che tu ne capissi più di me di tali cose, e seguendoti sono entrato nel delirio bacchico insieme con te, testa divina! »


(Platone, Fedro, X; trad. Gallo Galli,
ed. Laterza, Bari 1949.)

TRAHIT SUA QUEMQUE VOLUPTAS

a ciascuno il suo fine


« E' risaputo che i filosofi dicono che mentre la lingua e la scrittura e gli occulti pensieri di fede sono molteplici e variabili, le nozioni che risiedono nell'anima di ogni uomo sono per natura le medesime per tutti.
Ne ha già parlato Aristotele all'inizio del suo Armonius, che è il libro dell'interpretazione per il quale disponiamo del commento di Ibn Rushd [Averroè] tradotto nella nostra lingua dal sapiente rabbi Ya'aqov autore del Malmad [Ya'aqov ben Abba Mari Anatoli, Malmad ha-talmidim, il pungolo degli studenti], sia benedetta la sua memoria. »

(Avraham Abulafia, seconda metà XVIII sec, "Seva' Netivot ha-Torah", I sette sentieri della Torah;
trad. di Giulio Busi, in: Mistica Ebraica, Einaudi 1995, pag.400)

 

Gentile Ares,

nel calcolo delle probabilità, “ad essere onesto e ad essere sinceri” è altamente presente il rischio di rimanere fregati.

L'inconscio –individuale o collettivo, in fin dei conti poco importa...– di popoli “perdenti” nella gara delle conquiste del potere, come quello ebraico, o gli indiani d'America, o gli Inouit-eschimesi, o gli aborigeni d'Australia o di non importa dove, o tanti altri più o meno noti, più o meno numerosi, più o meno “difficili” da integrare/convertire, è ormai irrecuperabilmente segnato da quella sottile, ma pre-dominante diffidenza per il rischio di cui sopra, e per le relative, ben note conseguenze. Ne consegue che siamo tutti ormai, perdenti o vincenti, vincitori o vinti, “onesti e sinceri” solo per calcolo, e in conseguenza del calcolo stesso...

Avverti nel mio scritto un “costante autocompiacimento”?

Ma perdìo! Come potrebbe essere altrimenti?
O meglio: dove, “onestamente e sinceramente”, è possibile, o gradevole, o “interessante” condividere un discorso che non abbia origine, sotto sotto, da un positivo ed energetico, vitalizzante autocompiacimento, sia che lo si voglia chiamare o intendere quale “autostima”, o che lo si voglia camuffare da “autocritica”, col risultato di organizzare un'apologia di se stessi costruita su un'immagine di saggia umiltà, in forma d'inganno universalmente apprezzato?

Non siamo forse tutti “a immagine e somiglianza di Dio”? E, in questo caso almeno, davvero di qualsiasi divinità l'uomo sia riuscito a immaginare?
E non sarà questo fatto l'inevitabile causa della nostra palese o occulta “vanità”, tanto disprezzata dalla Morale universale, quanto segretamente accolta quale fonte primaria di energia vitale, di affermazione della vita, di desiderio di viverla?

Non si “autocompiace” forse persino un Socrate nell'accompagnare piacevolmente il suo ascoltatore nelle gradevoli strade dei suoi impervi discorsi?
Certo, Socrate –attraverso la voce di Platone– ci mette in guardia dai Sofisti e, soprattutto dalla loro “particolare” vanità, cercando di insegnarci a non finire “innamorati” nel luogo sbagliato, ovvero nella stretta ma confortevole prigione dorata dell'edificio chiuso e intrasformabile del loro discorso, sterile e “già morto e decomposto” nella sua auto-referenzialità.

Così, a un punto di quel “Fedro” che mi è piaciuto accompagnasse le mie lettere a te e a Jim Morrison, caro Ares, Platone fa dire a Socrate:

« [...] invero ciò che sempre è in movimento è immortale; ciò invece che muove altro ed è mosso da altro, quando ha cessazione di moto ha cessazione di vita. E certo, soltanto ciò che muove se stesso non cessa mai dal muoversi, poiché non può alienarsi da se stesso; e anzi esso è causa e principio di movimento alle altre cose, in quanto si muovano. Principio è il medesimo che non generato. E' infatti necessario che tutto ciò che si genera venga generato dal principio, ma questo non può essere generato dal nulla. Poiché se il principio venisse generato da alcunché, questo alcunché non sarebbe generato dal principio. E dappoiché è non generato, di necessità è anche incorruttibile. Poiché se il principio perisce, né esso potrà mai da altra cosa, né altra cosa potrà mai da esso generarsi, se è vero che ogni cosa ha da prendere origine da un principio. Così dunque, principio del movimento è ciò che muove se stesso. [...] »

(Platone, op. cit., XXIV)

E anche con questo gradevole divertissement –certo non privo di autocompiacimento. così come d'ironia, al fine di non farci scappar via per noia o fastidio intollerabile!–, Socrate ci mostra uno dei modi per osservare e riconoscere un sofista: principio del movimento è ciò che muove se stesso.

Ma un simile principio è anche ciò che viene comunemente chiamato "Dio", e di un “Principio” che non insegni la tecnica per imporre un'immagine “del giusto e dell'ingiusto”, Socrate dovrà far uso, e quello mostrerà essere il suo dono d'amore per l'umanità, il suo regalo per il matrimonio di Verità con Giustizia.

E un “Principio” può ben essere definito ed espresso con le parole e i concetti che in quell'occasione Socrate usò per amore di Fedro, di se stesso e dell'umanità intera cui fosse capitato di poter conoscere l'intero suo discorso, così come lo riportò e scrisse l'eguale amore di Platone per Socrate, che non ha bisogno di nascondere, e non si vergogna d'essere “amore per la bellezza”. Anche, quindi, la bellezza, l'estetica di un discorso, tanto cara ai deplorevoli sofisti.

Scriveva l'imperatore Adriano, all'incirca fra il 1924 e il 1973 d.C. accanto agli sconvolgimenti di un'umanità ancora incosciente del suo tremendo potere distruttivo, ancora inebriata dalle tecnologie nuove e rivoluzionarie, mentre la radio e poi la televisione rapidamente conquistavano il mondo e lo mutavano irreversibilmente –, nel celebre ritratto che di lui, della sua "voce", seppe fare Marguerite Yourcenair:

« In un mondo dove tutto non è che un turbine di forze, danza di atomi, dove tutto si trova contemporaneamente in alto e in basso, al centro e alla periferia, non riuscivo a farmi convinto dell'esistenza d'un globo immobile, d'un punto fisso che non fosse al tempo stesso in moto .»

E così indagando nell'idea di Dio, giungeva a meditare sullo stato di saturazione del suo mondo:

« Siamo ingombri di statue, rimpinzati di capolavori della pittura e della scultura; ma questa abbondanza è illusoria: non facciamo che riprodurre all'infinito poche decine di capolavori che non saremmo più in grado di inventare. »

E ancora indagando intorno all'idea di Dio, finiva col dire di sé:

« TRAHIT SUA QUEMQUE VOLUPTAS: ciascuno la sua china; ciascuno il suo fine, la sua ambizione, se vuole, il gusto più segreto, l'ideale più aperto. Il mio era racchiuso in questa parola: il bello, di così ardua definizione a onta di tutte le evidenze dei sensi e della vista. Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo [...] »

(Marguerite Yourcenair, Memorie di Adriano, Gallimard, Paris 1974;
trad. it. Lidia Storioni Mazzolani, ed. Einaudi 2002;
nell'ordine: pag.140, pag.124 e pag.127)

Però tu, Ares, tra filosofi antichi e antichi imperatori, sei ancora insoddisfatto dell'assenza di Jim Morrison in tutto questo vocìo, ed esprimi con evidente soddisfazione (e quindi trasmettendo un inevitabile“senso di autocompiacimento”...) questa tua insoddisfazione...

Detto per inciso: io ho una personalissima, fastidiosa, invadente, tutt'altro che ammirevole o desiderabile antipatia per tutto quello che è americano –e Morrison rientra nella categoria, pur non essendolo d'origine. Mi sono domandato spesso, pertanto, quale posto e quale significato potrebbe avere un mio specifico impegno dedicato a lui –anzi: alla sua MEMORIA...– , nel sovraffollato oceano di pubblicazioni che lo riguardano. E ho finito col decidere che preferisco non citare da ciò che ha prodotto e ci ha lasciato, nulla più che il suo NOME. Che piaccia o no a chi mi giudica in base a questo fatto...

Mi capita di leggere, ad esempio:

«Ipocrisia. I programmi scolastici ministeriali, i valori spacciati in televisione, le precauzioni, la prevenzione, le reticenze, la buona educazione, la modestia e il senso di colpa cattolici, la famiglia, gli avvocati, i legislatori e chi li vota. Tutto un grande crogiolo di ipocriti, vuoti, informi, privi di un'identità, inconsapevoli di esserlo, che forgiano altri esseri viventi affinché consapevoli non lo diventino e quindi non li smascherino rivelando la loro assoluta inconsistenza.

Detestiamo chi spezza le consuetudini, chi mette in dubbio ciò che è ritenuto valido, a meno che non sia già morto, meglio se da un bel pezzo, residente cioè in un'alterità che ci giustifica e ci assolve.
Ormai privo di una voce e di una fisicità che possano sfuggire al controllo; permettiamo che si studi – mai che si ami – qualche contestatore e la sua opera, soffermandoci non già sulle spinte interiori, sulle polemiche sociali, sulle rivoluzioni, le innovazioni, le guerre generazionali, la radicalità di un pensiero storicamente nuovo, ma sulle scelte stilistiche, sulle eredità culturali di altri personaggi del passato, sull'identificazione delle figure retoriche e simili banalità.
Pur senza negare l'importanza del significante, dal quale dipende la trasmissione del significato nel suo farsi rappresentazione, io rivendico la centralità dell'emozione.
[...]
»

( http://www.consapevolezza.it/mandala/jim_morrison/jim_morrison.asp )

Dovrei quindi aggiungere –per onestà e sincerità– che tra i fastidi che affliggono la mia vita, c'è anche quello di provare irritabilità allergica e depressione alla lettura o all'ascolto di “Manifesti”, siano essi lontani o vicini al mio tempo storico (tempo, o luogo, che probabilmente continuo a nascondere a me stesso con superba abilità...). Non riesco infatti a leggere o citare neppure due righe di testi quali il “Manifesto del Surrealismo”, o del Dadaismo, o del Comunismo, o del Nichilismo... né più né meno di quanto mi accada con un manuale di paracadutismo, o di militarismo, o di arrivismo... o peggio che mai un quotidiano sportivo o un appassionato discorso sulle meraviglie olimpioniche...

E, ripeto con forza e convinzione: non provo alcun piacere ad avere fastidio per qualcosa, esattamente come non provo diletto ad avere una carie in un dente o a pensare che qualcuno finisca col considerarmi al pari di uno snob.

Tutto ciò lo dico solamente a mo' d'apologia, con il preciso scopo di lasciar aperto uno spiraglio alla possibilità che colui o colei che mi legge o ascolta possa accorgersi che io, come ognuno al mondo, parlo di un oggetto il quale contemporaneamente è anche “l'altra cosa”, personalissimamente generata o costruita dalla mente dell'ascoltatore o dell'interlocutore... Dunque: Morrison o il Pasticcio di Patate al Forno, o Topolino, un topo bollito con o senza sale o spezie, o Dio stesso, che l'abbia o non l'abbia inventato l'uomo a sua immagine e somiglianza, in conseguenza della sua digestione difficoltosa, o della sua immediata necessità di ingerire e assumere prodotti digeribili...


Come vedi, Ares, non mi riesce di evitare penose scivolate nel cinismo, quando affiorano alcuni nomi, in particolare quelli d'ambientazione americana...

Reagisco quindi alla tua insoddisfazione per non aver trovato “molto altro che un piccolo gioiello formale elettronico, nel quale avverto un costante autocompiacimento” e poiché (o “in quanto che”...) avresti “preferito parlare di Jim Morrison, che però mi sembra essere un argomento marginale...” offrendoti un mio pensiero coniato precisamente sullo “Sciamano” Jim Morrison, che pure farò esprimere ad altri, confessando così fino in fondo la mia incapacità a intesserlo e incorniciarlo. Eccolo qui di seguito:

 

[...] Gli indiani [d'America] avevano i loro segreti per fendere il suolo e rivoltarlo in modo da esporre la sua carne e il suo sangue, la terra nera. Mentre lavoravano, si scusavano con la terra per doverla ferire, e cantavano antichi canti per propiziarsi gli spiriti giusti. Sapevano che l'uomo bianco arava troppo in profondità. Se regolavano il vomere per un'aratura più superficiale, la massa di radici sotto la superficie marciva più rapidamente e riuscivano a dissodare quasi un ettaro di terreno al giorno. [...]

Jay, meravigliato, cercò di spiegare il sistema degli indiani ai suoi vicini [coloni dell'Illinois nel 1850 ca.], ma non trovò nessuno disposto ad ascoltarlo.

«Questo perché quegli ignoranti bastardi mi considerano uno straniero, anche se io sono nato nella Carolina del Sud e alcuni di loro sono nati in Europa» si lagnava con Rob J. «Non hanno fiducia in me. Odiano gli irlandesi e gli ebrei e i cinesi e gli italiani e sa Dio chi altri, perché sono venuti in America troppo tardi. Odiano i francesi e i mormoni per principio. E odiano gli indiani perché erano in America prima di loro. Diavolo, e allora chi amano?»

Rob J. Gli sorrise. «Be', Jay... amano se stessi! Pensano di aver ragione perché hanno avuto il buon senso di arrivare proprio al momento giusto.»

 

(Noah Gordon, Lo Sciamano, 1992, trad. di Maria Magrini,
ed. BUR 2003, pag.189.)


Bene, questo mi capita di pensare osservando l'umanità che si aggira nei vari mondi che chiamiamo Jim Morrison: “Pensano di aver ragione perché hanno avuto il buon senso di arrivare proprio al momento giusto”, con buona pace per chiunque altro, contemporaneo o antico che sia, il quale verrà messo a tacere col semplice atto di smettere d'ascoltarlo...

 

Qui concluderò i miei autocompiacimenti, poiché ogni cosa se invecchia male diventa grigia e sterile, e questa è già invecchiata abbastanza per correre il rischio di non essere più vino di una buona botte, ma ansioso ansimare d'anziani uomini impauriti dalla morte.

Troverai queste lettere nel mio sito, appena avrò tempo d'impaginarle, dove tu sarai certamente solo “l'anonimo” ARES, ma io mi arrogherò il diritto e il potere di “pubblicarti” nel mio Regno, che ti piaccia o no, ora e in futuro solo a mia scelta e piacere. Sebbene con amore...

E quindi tu, BENEVOLMENTE, non volermene male...

Vivi felice e restami amico,
tuo Claudio Ronco.


« Il mondo, stanco di noi, si cercherà nuovi padroni; quel che ci era parso saggio apparirà vano, quel che ci era apparso bello apparirà orribile. »

(M. Yourcenair, op. cit., pag.228.)

« Sono certo, che rappresentato ad un Cannibale un oggetto nel costume il più tragico, non aborrirà, ma goderà dell'oggetto. Confacenza de' moti rispetto al metro. »

(Giuseppe Tartini, Trattato di Musica secondo la vera Scienza dell'Armonia, Padova 1754. Cap.V, pag.151)

 

« Presque toujour ce qui nuit à la beauté morale, redouble la beauté poétique. On ne fait guère que des tableaux tranquilles et froids avec la vertu; c'est la passion et le vice qui animent les compositions du peintre, du poète et du musicien. »
(Quasi sempre ciò che nuoce alla bellezza morale raddoppia la bellezza poetica. Con la virtù non si può far nulla più che quadri tranquilli e freddi; è la passione e il vizio che animano le composizioni del pittore, del poeta e del musicista)

(D. Diderot, Le neveu de Rameau, 1761)

« [...] la vita ha sposato l'inconscio e l'involontario al ragionevole e allo spontaneo: e quindi l'uomo non dovrebbe separare ciò che il cielo ha unito. »

(I. P. V. Troxler, Blicke in das Wesen des Mensches, 1812)

« Diventiamo consapevoli di certe rappresentazioni che non dipendono da noi; altre dipendono da noi, o perlomeno lo crediamo; qual è la linea di demarcazione? Si dovrebbe dire "pensa" proprio come si dice "piove". Dire cogito è già troppo, non appena lo si traduce in "io penso".
Assumere, o postulare l'Io, è un'esigenza pratica.
»

(Ch. Georg Lichtenberg, in Deutsche National Literatur, 1780, vol. 141, pag.47)


Infine, un pensiero conclusivo da parte del poeta:

CLICCA PURE QUI

 

Musique:


Maurice Ravel, dal: Tombeau de Couperin, 1917.

 

© claudioronco2004