In un celebre quadro di Francesco Hayez,
Gioacchino Rossini è ritratto non più giovane,
accasciato su una sedia, lo sguardo lontano, impenetrabile, la
mano destra su uno spartito semichiuso appoggiato alle ginocchia,
sul quale si legge, scritto a caratteri cubitali:
"MUSICA DELL'AVVENIRE",
quell'ultima parola
sottolineata quasi a velare d'inquietudine la domanda: chi è l'autore della musica di quello spartito? Quell'avvenire era
forse lo Zukunft di Wagner -che nel 1848 l'aveva teorizzato
al mondo nel suo libro «L'opera d'arte dell'avvenire»-
oppure l'essenza, il sublimato del pensiero musicale di Rossini,
proiettato profeticamente in un futuro possibile o probabile,
dove la lezione dei musicisti italiani avrebbe potuto riesumare
l'autorità che esercitava ai tempi di Corelli? Infatti,
per almeno due secoli, il "linguaggio", la retorica
dell'espressione musicale, si erano formati nella dolce cantilena
della lingua italiana, ma ora, nell'800, il dettato era il sublime del procedere visionario dell'arte tedesca. E l'Italia, di fronte
a ciò, sembrava intimidirsi, aver timore dell'ignoto,
ovvero di ciò che più pareva attrarre l'animo nordico.
È qui che nasce generalmente l'insoddisfazione dei moderni
interpreti nel confrontare le composizioni dei grandi classici
tedeschi con quelle di Paganini, Bellini o Donizetti: là
dove la vocalità è modello di bellezza e di tecnica
(anche violinistica) si gioisce della ricchezza ed efficacia
della musica italiana, ma di fronte al percorso poetico e alla
grandezza drammatica delle composizioni d'oltralpe, si finisce
spesso con lo stabilire che gli italiani avevano poco, o forse
per nulla, il senso autentico del tragico, e la loro musica era
solo rerorica - nel senso dispregiativo - o edonismo, intrattenimento
salottiero. Solamente nell'Opera lirica tutto sembra ancora trovare
un equilibrio e una forza persuasiva, in uno stile che è
frutto di una straordinaria naturalezza nella tecnica del canto
e degli strumenti. E questo è il nodo della questione:
il violoncellista o il violinista italiano sarà sempre
preferito per la bellezza della cavata, la "penetratività"
del suono, la perfetta fusione con i cantanti; altri - belgi,
tedeschi, francesi - saranno giudicati più brillanti nell'imitare
le prodezze violinistiche al violoncello, o nell'inventarne di
nuove al violino, o ancora più capaci nel padroneggiare
le complessità contrappuntistiche della musica da camera
dei grandi romantici. Ma nessuno è ricordato per la sua
"cantabilità" o bellezza di suono quanto gli
italiani. Così pure, tra i violinisti, Paganini è tanto amato quanto detestato dai suoi contemporanei, come se
di fatto dovesse portarsi sulle spalle il peso di tutta la tradizione
barocca italiana, dove la scuola di violino e la liuteria dei
Cremonesi erano la matrice o il modello su cui si formava tutta
I'Europa musicale.
E questi potrebbero essere i discorsi
fatti e rifatti per più di mezzo secolo da tutti i compositori
e i virtuosi italiani, nel cercarsi una giustificazione al pedante
dispregio in cui spesso erano tenuti, soprattutto dai tedeschi.
Per comprendere meglio questa realtà
bisogna interrogarsi sul perché tre Duetti concertanti
per violino e violoncello, composti a Varese nel 1824 da Alessandro
Rolla, potrebbero benissimo essere stati concepiti già
nel 1790, essendo riconoscibile in essi poco piu della lezione
corelliana, applicata al nuovo stile che Franz Joseph Haydn inaugurava
con i celebri Quartetti Op.20, e alla melodia belcantistica.
O che tre Duetti concertanti di Nicolò Paganini, composti
all'incirca dieci anni prima, potrebbero essere immaginati in
qualsiasi epoca successiva al Classicismo.
Cosa non c'e, infatti, nella musica dei
compositori italiani contemporanei di Beethoven?
Ci pare di non incontrare mai l'inquietudine di un immaginario
onirico, o il desiderio di calarsi nelle zone ignote della mente.
La mitologia, al di là di quella arcadica, non sembra
partecipe del loro linguaggio musicale. Cos'è dunque che
genera "energia" in esso? Forse la sensualità
indotta da una precisa aderenza all'immediatezza del reale, alla
natura così com'e percepita dal corpo quand'è teso
nel desiderio del contatto amoroso, armonico, con le cose visibili
e tangibili. Dunque in questo "trionfo dei sensi" sembrerebbe
di poter parlare solo più di un "erotismo" musicale
italiano. In effetti la mente non deve andar lontano per cogliere
le suggestioni di questa musica: anzi, essa deve rimanere attaccata
al suono come a un corpo, con il quale dovrà muoversi,
dovrà raccogliere sensazioni improvvise, immediate reazioni
fisiche all'effetto musicale. Dunque l'irrazionale è bandito,
in un certo senso, in quanto indurrebbe reazioni casuali, difficilmente
programmabili da una retorica.
Mentre i tedeschi cercavano di rappresentare
il "sublime" nei fenomeni maestosi della natura, in
quelli che generano spavento, terrore, o nelle visioni fantastiche
di una regione a quei tempi ancora tutta da esplorare: l'inconscio,
per Paganini l'espressione dell'inquietudine può ancora
essere solamente un "capriccio", idealmente, perfettamente
barocco, dove il gesto eroico non è quello dei grandi
eroi mitologici, ma solo quello dell'uomo che sullo strumento
di legno lavorato ad arte trascende il "peso" delle
cose e del concreto, e s'inebria di libertà, si slancia
nello spazio infinito, sicuro di sé per quel cordone ombelicale
che lo tiene saldo a un punto fisso nell'universo dei suoni:
la tonalità, lo schema cantabile, la tecnica del suo strumento.
Nei Duetti di Rolla, ad esempio, il violoncello è usato anche negli acuti estremi, con tecnica brillante,
senza mai però allontanarsi dalla razionalità della
forma e della natura dello strumento. Così sono semplici
e magnifiche le sue invenzioni finalizzate al creare accompagnamenti
di grande effetto polifonico, e tutta la ricchezza di suoni che
è capace di produrre sembra motivata soltanto dal piacore
di contemplare se stessa. I temi, infatti, sono assai convenzionali,
come non avessero bisogno d'essere altro che semplici pretesti
per la creazione della massima bellezza di suono e d'insieme.
Tutto insomma è lieve, e come trattenuto nelle maglie
di una struttura a sua volta solida e rassicurante, così
che ogni sentimento traspare solo per virtuosità: dalle
dita e dall'archetto, e dalle idee che essi sanno suggerire,
sottolineando le frasi con certi accenti o altri, attribuendo
a quello o quell'altro canto diversi timbri, e potendo trasformare
così all'infinito le suggestioni musicali grazie proprio
alla semplicità, o meglio all'apollinea razionalità delle idee esposte e della loro forma.
Sia in Rolla che in questo Paganini, l'attenzione nel rendere "italiana" la loro frase melodica si manifesta in un'espansivita
"solare" della melodia. L'espressione della malinconia
sembra sempre realizzata con l'addolcire la frase fino a rendere
un senso di mancamento; la composizione si mantiene "energetica"
fin tanto che continua a sostenersi nel dialogo stretto tra gli
strumenti concertanti, e ogni rilassamento delle frasi è
il luogo in cui l'attenzione viene conquistata dall'altro: colui
che prima ha accompagnato, accondisceso con amorosa complicità.
Così questa musica sembra generare all'infinito un gioco
d'amore, che è costruire un rapporto amoroso: dare, negare,
sussurrare, espandersi. Tutto sembra una ricerca di spinte vitali
che non vogliono - e quindi non possono - contrastare o contraddire
la natura. Ecco allora perché il loro schema formale è
necessariamente semplice, o "classico", e difficilmente
si può riconoscere come rivoluzionario o inquietante:
la forma deve essere in qualche modo sempre rassicurante, certa,
immutabile. E dunque la composizione diventa esercizio di civiltà,
che indaga in una natura condizionata dall'equilibrio conquistato
dal pensiero razionale; indaga sulle migliori reazioni agli stimoli
della vita, e l'esecuzione, o l'ascolto diviene esercizio della
virtù del vivere. L'iniziare e il concludere di questa
musica sembrano infatti i luoghi più delicati della sua
esecuzione: in essi si devono generare le condizioni di un "piacere"
che non solo è immagine "bella", ma è
anche l'immergersi in un'esperienza sentimentale strettamente
connessa alla logica della forma e dell'armonia definite dall'accademismo
classico, dalla Scuola, come una "seconda natura".
Ecco quindi che per un musicista come Rolla suonare significa
esercizio d'amore, così com'era nelle scuole platoniche
rinascimentali, e, così come in quelle, si poteva dunque
pensare che chi ama la bellezza ama per conseguenza, anche se
non lo sa, la sapienza.
Forse proprio Paganini rendeva instabile
tutto ciò, col suo pensiero musicale che era desiderio
sublime di libertà, posseduta nel gesto eroico del virtuosismo
estremo: in lui tutta la bellezza deriva dalla leggerezza, dall'inafferrabilità
del corpo e della natura del suo suono; tutto è sospeso
verso l'irrazionale, e vive e si sostiene solo per il riflesso
della natura, che pure vuole - o ama - sfuggire.
Una cosa sembra certa: Paganini può essere tutto ciò
che è stato, poiché il suo cordone ombelicale sono
Rolla, Veracini, Corelli, o - in ultima analisi - lo stesso Apollo,
che domina ed equilibra le dionisiache ebbrezze. Allora, se la Musica dell'Avvenire deve comunicare il desiderio di un
ordine superiore, questo può essere un recupero della
Retorica, che imponendoci i suoi limiti, ci concede il coraggio
di esplorare ciò che ci è ignoto.
N.Paganini; litografia (ca.1820)
di Karl Begas (1794-1854).
Si suppone che l'arco raffigurato
sia un modello transizionale, fabbricato da Sirjean, a bacchetta
dritta e "tête à marteau".
Cliccando sull'immagine si raggiunge la pagina di ascolti in formato MP3 di alta qualità dal CD "Duetti Concertanti, N. Paganini, A. Rolla".
Così ci siamo disposti all'esecuzione
di queste due raccolte di Duetti Concertanti con strumenti
adatti a suonare autori italiani della metà del '700,
ricordando che contemporanei di Paganini descrivevano la stranezza
del suo "arco di foggia antica" o della sua
scelta di corde. Ma soprattutto pensando che quel rischio particolare
in cui si incorre con strumenti più antichi potesse corrispondere
per noi al gesto eroico dei nostri Virtuosi. Abbiamo eseguito
i loro lavori pensando di rappresentarli come un incontro tra
due musicisti amici, nell'improvvisazione della lettura, nel
costruire un senso frammento dopo frammento, ricercando la sorpresa
dell'inatteso o di frasi melodiche allungate al di là
del prevedibile, quasi fatte per trascinarci nel risucchio di
una irresistibile corrente di idee musicali. Abbiamo finito col
credere che queste due raccolte di Duetti - non pubbicate, apparentemente
destinate solo a una circolazione limitata fra "Amatori
di musica" che all'epoca potevano essere anche virtuosi
- sia di fatto una lezione importante per coloro che sono in
cerca di una più profonda comprensione dello stile e della
tecnica paganiniane, fino a oggi offerta in una maniera troppo
rigida e aggressiva per poter tentare il recupero dell'immensa
varietà di suoni, trasparenza e levità che noi
vogliamo attribuirle.
Vi invitiamo a seguire i percorsi del nostro istinto improvvisativo,
che ha cercato di compiacere il desiderio di indagine su ogni
possibile idea realizzabile sugli strumenti antichi, nella ferma
convinzione che la Musica dell'Avvenire possa anche da essi ricevere
un contributo.
Claudio Ronco,
Venezia, agosto 1995.
© C. Ronco 1995
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