La Ragione di Apollo
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«La vera bellezza è la SAPIENTIA»

Leone Ebreo


«Tutto cio che è bello è leggero»

Nietzsche


claudio ronco

In un celebre quadro di Francesco Hayez, Gioacchino Rossini è ritratto non più giovane, accasciato su una sedia, lo sguardo lontano, impenetrabile, la mano destra su uno spartito semichiuso appoggiato alle ginocchia, sul quale si legge, scritto a caratteri cubitali:

"MUSICA DELL'AVVENIRE",

quell'ultima parola sottolineata quasi a velare d'inquietudine la domanda: chi è l'autore della musica di quello spartito? Quell'avvenire era forse lo Zukunft di Wagner -che nel 1848 l'aveva teorizzato al mondo nel suo libro «L'opera d'arte dell'avvenire»- oppure l'essenza, il sublimato del pensiero musicale di Rossini, proiettato profeticamente in un futuro possibile o probabile, dove la lezione dei musicisti italiani avrebbe potuto riesumare l'autorità che esercitava ai tempi di Corelli? Infatti, per almeno due secoli, il "linguaggio", la retorica dell'espressione musicale, si erano formati nella dolce cantilena della lingua italiana, ma ora, nell'800, il dettato era il sublime del procedere visionario dell'arte tedesca. E l'Italia, di fronte a ciò, sembrava intimidirsi, aver timore dell'ignoto, ovvero di ciò che più pareva attrarre l'animo nordico. È qui che nasce generalmente l'insoddisfazione dei moderni interpreti nel confrontare le composizioni dei grandi classici tedeschi con quelle di Paganini, Bellini o Donizetti: là dove la vocalità è modello di bellezza e di tecnica (anche violinistica) si gioisce della ricchezza ed efficacia della musica italiana, ma di fronte al percorso poetico e alla grandezza drammatica delle composizioni d'oltralpe, si finisce spesso con lo stabilire che gli italiani avevano poco, o forse per nulla, il senso autentico del tragico, e la loro musica era solo rerorica - nel senso dispregiativo - o edonismo, intrattenimento salottiero. Solamente nell'Opera lirica tutto sembra ancora trovare un equilibrio e una forza persuasiva, in uno stile che è frutto di una straordinaria naturalezza nella tecnica del canto e degli strumenti. E questo è il nodo della questione: il violoncellista o il violinista italiano sarà sempre preferito per la bellezza della cavata, la "penetratività" del suono, la perfetta fusione con i cantanti; altri - belgi, tedeschi, francesi - saranno giudicati più brillanti nell'imitare le prodezze violinistiche al violoncello, o nell'inventarne di nuove al violino, o ancora più capaci nel padroneggiare le complessità contrappuntistiche della musica da camera dei grandi romantici. Ma nessuno è ricordato per la sua "cantabilità" o bellezza di suono quanto gli italiani. Così pure, tra i violinisti, Paganini è tanto amato quanto detestato dai suoi contemporanei, come se di fatto dovesse portarsi sulle spalle il peso di tutta la tradizione barocca italiana, dove la scuola di violino e la liuteria dei Cremonesi erano la matrice o il modello su cui si formava tutta I'Europa musicale.
E questi potrebbero essere i discorsi fatti e rifatti per più di mezzo secolo da tutti i compositori e i virtuosi italiani, nel cercarsi una giustificazione al pedante dispregio in cui spesso erano tenuti, soprattutto dai tedeschi.
Per comprendere meglio questa realtà bisogna interrogarsi sul perché tre Duetti concertanti per violino e violoncello, composti a Varese nel 1824 da Alessandro Rolla, potrebbero benissimo essere stati concepiti già nel 1790, essendo riconoscibile in essi poco piu della lezione corelliana, applicata al nuovo stile che Franz Joseph Haydn inaugurava con i celebri Quartetti Op.20, e alla melodia belcantistica. O che tre Duetti concertanti di Nicolò Paganini, composti all'incirca dieci anni prima, potrebbero essere immaginati in qualsiasi epoca successiva al Classicismo.
Cosa non c'e, infatti, nella musica dei compositori italiani contemporanei di Beethoven?
Ci pare di non incontrare mai l'inquietudine di un immaginario onirico, o il desiderio di calarsi nelle zone ignote della mente. La mitologia, al di là di quella arcadica, non sembra partecipe del loro linguaggio musicale. Cos'è dunque che genera "energia" in esso? Forse la sensualità indotta da una precisa aderenza all'immediatezza del reale, alla natura così com'e percepita dal corpo quand'è teso nel desiderio del contatto amoroso, armonico, con le cose visibili e tangibili. Dunque in questo "trionfo dei sensi" sembrerebbe di poter parlare solo più di un "erotismo" musicale italiano. In effetti la mente non deve andar lontano per cogliere le suggestioni di questa musica: anzi, essa deve rimanere attaccata al suono come a un corpo, con il quale dovrà muoversi, dovrà raccogliere sensazioni improvvise, immediate reazioni fisiche all'effetto musicale. Dunque l'irrazionale è bandito, in un certo senso, in quanto indurrebbe reazioni casuali, difficilmente programmabili da una retorica.
Mentre i tedeschi cercavano di rappresentare il "sublime" nei fenomeni maestosi della natura, in quelli che generano spavento, terrore, o nelle visioni fantastiche di una regione a quei tempi ancora tutta da esplorare: l'inconscio, per Paganini l'espressione dell'inquietudine può ancora essere solamente un "capriccio", idealmente, perfettamente barocco, dove il gesto eroico non è quello dei grandi eroi mitologici, ma solo quello dell'uomo che sullo strumento di legno lavorato ad arte trascende il "peso" delle cose e del concreto, e s'inebria di libertà, si slancia nello spazio infinito, sicuro di sé per quel cordone ombelicale che lo tiene saldo a un punto fisso nell'universo dei suoni: la tonalità, lo schema cantabile, la tecnica del suo strumento.
Nei Duetti di Rolla, ad esempio, il violoncello è usato anche negli acuti estremi, con tecnica brillante, senza mai però allontanarsi dalla razionalità della forma e della natura dello strumento. Così sono semplici e magnifiche le sue invenzioni finalizzate al creare accompagnamenti di grande effetto polifonico, e tutta la ricchezza di suoni che è capace di produrre sembra motivata soltanto dal piacore di contemplare se stessa. I temi, infatti, sono assai convenzionali, come non avessero bisogno d'essere altro che semplici pretesti per la creazione della massima bellezza di suono e d'insieme. Tutto insomma è lieve, e come trattenuto nelle maglie di una struttura a sua volta solida e rassicurante, così che ogni sentimento traspare solo per virtuosità: dalle dita e dall'archetto, e dalle idee che essi sanno suggerire, sottolineando le frasi con certi accenti o altri, attribuendo a quello o quell'altro canto diversi timbri, e potendo trasformare così all'infinito le suggestioni musicali grazie proprio alla semplicità, o meglio all'apollinea razionalità delle idee esposte e della loro forma.
Sia in Rolla che in questo Paganini, l'attenzione nel rendere "italiana" la loro frase melodica si manifesta in un'espansivita "solare" della melodia. L'espressione della malinconia sembra sempre realizzata con l'addolcire la frase fino a rendere un senso di mancamento; la composizione si mantiene "energetica" fin tanto che continua a sostenersi nel dialogo stretto tra gli strumenti concertanti, e ogni rilassamento delle frasi è il luogo in cui l'attenzione viene conquistata dall'altro: colui che prima ha accompagnato, accondisceso con amorosa complicità. Così questa musica sembra generare all'infinito un gioco d'amore, che è costruire un rapporto amoroso: dare, negare, sussurrare, espandersi. Tutto sembra una ricerca di spinte vitali che non vogliono - e quindi non possono - contrastare o contraddire la natura. Ecco allora perché il loro schema formale è necessariamente semplice, o "classico", e difficilmente si può riconoscere come rivoluzionario o inquietante: la forma deve essere in qualche modo sempre rassicurante, certa, immutabile. E dunque la composizione diventa esercizio di civiltà, che indaga in una natura condizionata dall'equilibrio conquistato dal pensiero razionale; indaga sulle migliori reazioni agli stimoli della vita, e l'esecuzione, o l'ascolto diviene esercizio della virtù del vivere. L'iniziare e il concludere di questa musica sembrano infatti i luoghi più delicati della sua esecuzione: in essi si devono generare le condizioni di un "piacere" che non solo è immagine "bella", ma è anche l'immergersi in un'esperienza sentimentale strettamente connessa alla logica della forma e dell'armonia definite dall'accademismo classico, dalla Scuola, come una "seconda natura". Ecco quindi che per un musicista come Rolla suonare significa esercizio d'amore, così com'era nelle scuole platoniche rinascimentali, e, così come in quelle, si poteva dunque pensare che chi ama la bellezza ama per conseguenza, anche se non lo sa, la sapienza.
Forse proprio Paganini rendeva instabile tutto ciò, col suo pensiero musicale che era desiderio sublime di libertà, posseduta nel gesto eroico del virtuosismo estremo: in lui tutta la bellezza deriva dalla leggerezza, dall'inafferrabilità del corpo e della natura del suo suono; tutto è sospeso verso l'irrazionale, e vive e si sostiene solo per il riflesso della natura, che pure vuole - o ama - sfuggire.
Una cosa sembra certa: Paganini può essere tutto ciò che è stato, poiché il suo cordone ombelicale sono Rolla, Veracini, Corelli, o - in ultima analisi - lo stesso Apollo, che domina ed equilibra le dionisiache ebbrezze. Allora, se la Musica dell'Avvenire deve comunicare il desiderio di un ordine superiore, questo può essere un recupero della Retorica, che imponendoci i suoi limiti, ci concede il coraggio di esplorare ciò che ci è ignoto.

N.Paganini; litografia (ca.1820) di Karl Begas (1794-1854).

Si suppone che l'arco raffigurato sia un modello transizionale, fabbricato da Sirjean, a bacchetta dritta e "tête à marteau".
Cliccando sull'immagine si raggiunge la pagina di ascolti in formato MP3 di alta qualità dal CD "Duetti Concertanti, N. Paganini, A. Rolla".


Così ci siamo disposti all'esecuzione di queste due raccolte di Duetti Concertanti con strumenti adatti a suonare autori italiani della metà del '700, ricordando che contemporanei di Paganini descrivevano la stranezza del suo "arco di foggia antica" o della sua scelta di corde. Ma soprattutto pensando che quel rischio particolare in cui si incorre con strumenti più antichi potesse corrispondere per noi al gesto eroico dei nostri Virtuosi. Abbiamo eseguito i loro lavori pensando di rappresentarli come un incontro tra due musicisti amici, nell'improvvisazione della lettura, nel costruire un senso frammento dopo frammento, ricercando la sorpresa dell'inatteso o di frasi melodiche allungate al di là del prevedibile, quasi fatte per trascinarci nel risucchio di una irresistibile corrente di idee musicali. Abbiamo finito col credere che queste due raccolte di Duetti - non pubbicate, apparentemente destinate solo a una circolazione limitata fra "Amatori di musica" che all'epoca potevano essere anche virtuosi - sia di fatto una lezione importante per coloro che sono in cerca di una più profonda comprensione dello stile e della tecnica paganiniane, fino a oggi offerta in una maniera troppo rigida e aggressiva per poter tentare il recupero dell'immensa varietà di suoni, trasparenza e levità che noi vogliamo attribuirle.
Vi invitiamo a seguire i percorsi del nostro istinto improvvisativo, che ha cercato di compiacere il desiderio di indagine su ogni possibile idea realizzabile sugli strumenti antichi, nella ferma convinzione che la Musica dell'Avvenire possa anche da essi ricevere un contributo.

 

Claudio Ronco, Venezia, agosto 1995.     

 

 

© C. Ronco 1995

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