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Per fare una sintesi della vita di p. Luigi Scrosoppi, crediamo opportuno di riferirci al libro biografico più completo ed importante, che è quello di mons. Gugliemo Biasutti. Da tale libro estrapoliamo allo scopo la presentazione di p. Cornelio Fabro che riassume in maniera efficace lo spirito e gli aspetti più significativi della vita del beato.

 

Roma, 3 aprile 1979.  Presentazione di padre Cornelio Fabro (degli stimmatini) al libro di mons. Guglielmo Biasutti

 

PADRE LUIGI SCROSOPPI

 

Questa vita del filippino friulano p. Luigi Scrosoppi è la terza in ordine di tempo, dopo quella di mons. Tinti e del gesuita p. Colombara: essa si avvale di una conoscenza di testimonianze e docu­menti perseguita secondo la più esigente critica storica così da collo­care il personaggio all'interno del turbinare di quegli eventi religiosi e politici dell'Ottocento che hanno cambiato, con un balzo di qualità, la nuova figura del mondo e dell'uomo. Ora, che ho finito la lettura di questa vita monumentale  -  che può gareggiare con le produzioni più felici dell'agiografia contemporanea - se qualcuno mi chiedesse: qual è la caratteristica della personalità di questo sacerdote, la forza dominante della sua anima, il segreto profondo del suo spirito che l'ha guidato e sorretto nelle prove e angustie di cui è stata disseminata la sua lunga vita...? - la risposta sarebbe immediata e di estrema semplicità: p. Luigi ha amato il suo prossimo con l'amore stesso di Cristo e secondo l'esempio di Cristo ha prediletto i piccoli, gli emarginati, i sofferenti di tutti i dolori dell'anima e del corpo considerandosi, alla lettera, il « servo » di tutti. E' una personalità di sacerdote che subito ti attira con una carica di simpatia cristiana indicibile, con una tenerezza quasi come se tu stesso, a distanza quasi di un secolo dalla sua dipartita, ti sentissi preso e beneficato nell'alone della sua fiammata d'amore.

 

Non è spreco di retorica se diciamo che l'umile filippino ha anticipato coi fatti, sulla linea del Vangelo e degli esempi dei santi della carità suoi patroni (specialmente S. Gaetano) il richiamo alla coscienza ecclesiale del Vaticano Il così che ogni cristiano, sull'esempio di Cristo ch'è venuto non per essere servito ma per servire, deve attuarsi con una « vita di servizio » per i propri fratelli. Già S. Caterina da Siena, stimolando i suoi discepoli alle opere di carità, ammoniva che Dio non abbisogna delle nostre cose ma vuole essere amato nei nostri fratelli.

E più vicino a noi, più giovane di molti di noi, Benedetta Bianchi Porro – stroncata da una crudele malattia nel 1964 a 28 anni e già oggi in corsa per la gloria dei santi – aveva scelto per motto, nel terribile e quasi completo isolamento, della sua missione: « abitare negli altri ». Operare per gli altri, soffrire per gli altri, vivere per gli altri... è abitare negli altri come nel calice ove si raccoglie la somma dei dolori di Cristo che ci chiama alla partecipazione della sua passione secondo una presenza rinnovata di amore ch'egli attende da ciascuno come risposta al dono della grazia.

La risposta di p. Luigi è documentata dai fatti della sua vita trascorsa prima all'ombra del suo degno fratello Carlo e poi, per trent'anni fino alla morte, portata nella responsabilità e sofferenza quotidiana di sentirsi inadeguato per una missione di carità spirituale e corporale per la quale veniva bruciando tutto se stesso. Se oggi, all'interno della Chiesa e specialmente per la spinta del Vaticano lI, il senso della « diaconia » è più sollecitato nella vita dei cristiani, i Modelli per il servizio dei fratelli ci vengono da lontano nella storia della Chiesa che ha suscitato in ogni tempo istituzioni opportune trovando anime di fuoco per realizzarle ed animarle. Tra esse ha il suo degno posto il nostro p. Luigi accanto a S. Francesco (di cui era particolarmente devoto e voleva diventare figlio) che abbraccia il lebbroso, a S. Girolamo Emiliani, a S. Vincenzo de' Paoli, a S. Giovanni di Dio, al Cottolengo suo contemporaneo... Vari sono i carismi nella Chiesa di Dio e tutti zampillano dall'identico Spirito che « opera tutto in tutti »... così la sapienza, la scienza, le realizzazioni di opere e strutture imponenti: su tutte però avanzano le opere di misericordia che Cristo ci ha chiesto per i nostri fratelli e che papa Giovanni ha rievocato come l'aroma della testimonianza cristiana al mondo.

La risposta di p. Luigi al messaggio evangelico è stata la consacrazione della sua vita intera soprattutto all'opera della Casa delle Derelitte di Udine e alla formazione spirituale delle suore della Provvidenza destinate alla cura delle ricoverate: un piccolo seme che è ormai cresciuto in albero fiorente ai quattro punti dell'orizzonte. Come naturale prolungamento della sua « missione di servizio » nella Chiesa egli estese l'opera delle sue figlie all'assistenza degli ospedali, dove il loro eroismo brillò soprattutto in occasione dei frequenti eventi bellici e di pubbliche calamità (colera, vaiolo...) fino all'immolazione della vita. Segno di una formazione e di una grazia singolare che veniva dall'esempio del Padre e dall'impetrazione delle sue preghiere: anch'egli, come i suoi modelli nel servizio della carità, ricordava alle suore che dovevano considerare le bambine e gli ammalati come i loro padroni fino a lavare e baciare loro i  piedi. Egli stesso ne diede l’esempio nelle visite agli ospedali commuovendosi di gioia.

Bisognerebbe raccogliere i « fioretti » di p. Luigi, disseminati in questa vita fin dall'inizio del suo apostolato di carità. Eccolo: contava appena ventiquattro anni e mezzo di età e quasi due di messa - un giovincello - e si offre al fratello Carlo di farsi mendicante per sollevare la pia Casa dalle strettezze in cui versava. La filosofia di p. Luigi e la sollecitudine impaziente della cristiana compassione: non è pratico stare ad aspettare le offerte quando vengono. Occorre andarle a cercare e lui fuori, a bussare di porta in porta. Le bambine hanno fame ogni giorno. Né dobbiamo accontentarci, pensa, di dare loro un pezzo di pane ed un po' di minestra. Sono denutrite dalla nascita e attraversano l'età delicata della formazione. E' necessario mettere sulla tavola del companatico sostanzioso: qualche fetta di formaggio e, abbastanza spesso, un po' di carne. Per questo ci vuole un cercatore che metta tutta l'anima nella questua e che bussi senza timore alle porte dei privati e dei negozi e dei contadini nei cascinali suburbani: « Vi prego, padre Carlo - così conclude il piccolo discorso immaginario, ma più reale di ogni contingente parvenza - lasciate andare me ». E ci andò, sorretto dalla presenza di Cristo nei piccoli e nei poveri: «... ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me » (Mt 25, 40). Ed ecco che, a cominciare dal marzo 1829, comparve a tavola ciò che la maggior parte di quelle creature mai o troppo di rado avevano gustato: uova, formaggio e carne di vitello, di gallina, e perfino di capretto. Commovente è al riguardo la testimonianza della suora dimessa Angelica Faccini: « Io ricordo - attesta la suora - che le bambine dai tre ai quattro anni gli correvano incontro, attaccandosi alle sue vesti, come a quelle della perduta loro mamma, chiedendogli con innocente libertà: « Gigi, dami ci­cin ». - Cioè: Luigi, dammi carne, - nel gergo infantile friulano. Commovente testimonianza dell'innocenza ch'è fiduciosa e sicura di una valida protezione. Una simile carità e delicatezza traspare anche dal foglietto che i due fratelli, Carlo e Luigi, diffusero nella città di Udine per sollecitare gli aiuti alla loro opera. La richiesta è messa, nel titolo, in bocca alle stesse ricoverate: «Parole delle povere fanciulle derelitte ai loro buoni concittadini e benefattori udinesi». Nell’umile richiesta si leggeva tra l’altro: «Noi chiediamo che ognuno di voi, che può e sente compassione di noi, faccia la carità di prendersi l'incarico di mantenere per un solo giorno al mese, per il corso di un solo anno, una sola di noi infelici. La spesa è tenue, di soli 50 centesimi al mese ». L'aggettivo « solo » ripetuto tre volte nel periodo, mentre sottolinea la modestia della domanda, mostra chiaramente l'umiltà della supplica e lascia trapelare il delicato timore di riuscire importuno. Quello stesso nome di « povere fanciulle derelitte» dice tutta la tristezza disperata delle ricoverate che la carità cristiana dei due fratelli sacerdoti aveva raccolto all'ombra della fiducia nella Provvidenza come si legge ancora, non senza un tuffo di commozione, al di sopra della ruota del brefotrofio ornato dei putti del della Robbia nella piazza dell'Annunziata a Firenze: « Pater et mater mea dereliquerunt me, Dominus autem assumpsit me » del Salmo 26,10.

Nei santi della carità la pena del prossimo alimenta l'amore e questo fiorisce nell'eroismo, per soccorrere il fratello sul volto del quale è lo stesso Christus patiens che si presenta supplice e bisognoso: è di qui, dal Cuore di Gesù di cui p. Luigi zelava la devozione, che scaturisce l'abnegazione della carità e la tenerezza della compassione per chi soffre. Questa tenerezza era il fiore della santità e quando, per la pressione profonda dell'amore di Cristo, essa illuminava la sua figura grave e austera, doveva essere per quelle fortunate anime uno spettacolo di Paradiso. Ma p. Luigi, per portare avanti la sua opera di carità, ebbe aiuti e appoggi generosi; li trovò più negli umili che non nei potenti sperimentando quanto « sia spinosa la carità dei ricchi » - salvo poche eccezioni.

Provò e trovò invece contrasti, opposizioni e contestazioni di ogni genere: anch'egli, com'è nello stile della vita dei santi, gustò il calice amaro dell'incomprensione e del disprezzo, i morsi dell'invidia e della gelosia meschina. Benché alieno dalla politica, fu accusato di essere « austriacante », benché distaccato da tutto e fattosi per i poveri anch'egli povero in canna, fu di continuo angariato dal fisco prima austriaco e poi italiano fino ad essere accusato - anche allora! - di esportazione di valuta. Poi, e ancor più dolorosa, l'insidia degli stessi movimenti politici nelle sue stesse figlie spirituali: « Grazie a Dio, non erano cedimenti di fede o di costume, ma una sottile irrequietezza, un pericoloso avvilimento, una malinconica nebbia di stanchezza » - come oggi, in questa nebbia di compromessi col mondo che ci assale da ogni parte?

 

Questa vita di abnegazione totale era ardore di carità e non frenesia di azione, era esercizio di amore del prossimo e non ambizione di affermazione di personalità per vincere l'ostacolo, era semplicemente la fedeltà alla missione che la Provvidenza gli aveva affidata. Il suo ideale era quello dell'apostolo:« Caritas Christi urget nos » (Il Cor. 5, 14). La sua aspirazione non era, com'egli si schermiva con ironia filippina, di figurare tra i « santi di altare » ma di realizzare il suo motto, riprodotto (a quanto ho sentito) anche nel suo ritratto postumo: « fare - patire - tacere » ch'è la sintesi di vita attiva e contemplativa in cui si realizza, secondo S. Tommaso d'Aquino, la perfezione cristiana. In lui era la contemplazione a fondare l'azione.

La vita fervida e insonne - anche nel senso letterale del termine - di quest'umile sacerdote in soccorso dei propri fratelli, è la contestazione in atto di quella follia che ha già causato gravissimi danni alle anime, inaridendo le fonti della pietà e della santità.

Padre Luigi aveva messo per tempo, a fondamento del suo ministero sacerdotale, il proposito della perfezione cristiana secondo gli esempi di Cristo e dei santi. Si tratta di propositi ch'egli rinnovava spesso e sui quali si esaminava specialmente in occasione di ritiri e di esercizi spirituali, riportati su foglietti, che scriveva e teneva per sé. Uno di questi scritti, riportati già dal Tinti (primo biografo che ha conosciuto il santo), porta il titolo: « Affetti e pratiche sante » e riflette le preoccupazioni del giovane sacerdote per la salvezza della sua anima: « A forte eccitamento alla santa perseveranza dirò spesso:  Che ti gioverà ogni cosa se ti danni e che ti nuocerà se ti salvi? ». E sospira: « Ah! prometto, Signore, di soffrire qualunque cosa e la morte stessa anziché offendervi con colpa veniale (si badi bene!), essendo il peccato il vero mostro di ingratitudine verso Dio e trafittore e carnefice delle anime e dei nostri corpi ». E dopo un fervido proposito della pratica concreta dell'umiltà (« essendo io un ammasso di putredine e di miserie schifose in quanto all'anima »), se la prende e si mette a contendere col diavolo: « Voglio combattere il demonio, togliendogli la preda a costo di qualunque mio stento, incomodo e difficoltà, e difendere le pecorelle di Gesù Cristo dagli assalti del demonio; prevenendole dai suoi inganni, rompendo i lacci, facendo andar vani i suoi colpi, rinforzandole negli assalti e rubandogli la preda e tutto ciò a gloria del mio capitano Gesù Cristo». Ha ragione il Biasutti di riscontrare qui il « fervore santamente combattivo di marca ignaziana congiunta (aggiungerei) al realismo dolce e veemente delle « Massime eterne » di S. Alfonso, anch'egli (come ricorda altrove l'A.) della costellazione dei protettori celesti di p. Luigi.

Profonda la considerazione del suo sacerdozio nella solidarietà con Cristo: « Voglio spesso pensare ch’io sono con Gesù Cristo offerto all'eterno Padre in sacrificio, e che perciò devo glorificarlo colla meschina mia persona, ritenendomi quale vittima ». Seguono i propositi di tenera devozione alla Madre di Dio e a S. Giuseppe, all'Angelo custode, ai suoi santi patroni nel segno della sua speciale consacrazione al servizio della Chiesa. Termina con un proposito di mortificazione e soprattutto di fedeltà alla preghiera e all'unione con Dio:

« Reciterò giaculatorie nel corso della giornata e pregherò anche camminando e in letto, non potendo dormire, affine di non perdere tempo e merito di gloria per il Paradiso ». Inferno e Paradiso, temi contrapposti e frequenti anche nella predicazione di p. Luigi cioè di quello che il Biasutti chiama felicemente «cristianesimo elementare » e che si potrebbe anche dire semplicemente cristianesimo evangelico, cristianesimo essenziale, ch'è il cristianesimo radicale del quid prodest homini si mundum universum lucretur, animae vero suae detrimentum patiatur? » (Mt 16, 26). E' il cristianesimo delle origini e dei santi di tutti i tempi che è stato capace di affascinare gli stessi nemici della Chiesa da Voltaire, a Feuerbach, a Garaudy... Questo timore dell'Inferno era un po' il chiodo di p. Luigi, come anche risulta da un foglietto di propositi fatti in occasione di un corso di esercizi spirituali intorno a quel tempo (1829-1830): « Di soffrire tutto allegramente con quella memoria (cioè dell'Inferno), essendo tutto un nulla a confronto di quello ». Questa è fede solida, la fede di carbonari di Pascal: ben altro quindi che la « demitizzazione », la « svolta antropologica », la « maturità del mondo »... e simili volta faccia al Vangelo di tanta teologia - purtroppo anche nell'area cattolica! - dei nostri giorni. Quest'ansia di perfezione mi sembra la vera caratteristica profonda della vita di p. Luigi che s'intensifica con l'avanzare degli anni. Facciamo un bel salto e portiamoci ai propositi del 1852 quando egli sta quasi per varcare la soglia dei 50 anni e sta per professare nel terz'ordine di s. Francesco. Qui i propositi sono dominati da un ardente desiderio di perfezione, in tutte le «opere quotidiane» a cominciare dalle pratiche di pietà che sono elencate con meticoloso scrupolo. Il progresso spirituale della sua anima è evidente: lo stadio del timore dell’inferno è superato ed è subentrata la sete di conformità con Cristo, considerato ancora come suo capitano.

I propositi sono in numero di sei ma è il terzo che ne forma il centro ed il nocciolo, ove contenuto e stile si fondono e vibrano di una celeste ispirazione. La sua caratteristica è ancora l'appartenenza tra l'esercizio perfetto dell'umiltà (3° grado) e l'imitazione di Cristo, da una parte e dall'altra tra l'esercizio della perfezione personale e la dedizione incondizionata della sua missione di carità e misericordia. Crediamo di non esagerare se consideriamo questo proposito la chiave per la comprensione della santità e fisionomia spirituale della sua grande anima e un documento di urgente attualità anche per la vita cristiana dei nostri giorni. Leggiamo: « Propongo di abbracciare il terzo grado di umiltà e di voler seguire Gesù Cristo nella povertà, nella umiltà e nella mortificazione. Penserò più spesso che Gesù è il mio capitano, ed io suo soldato, che voglio essergli fedele, attaccato perfettamente a lui nel cammino del cielo, e riuscire una vera sua copia. Ah sì, Signore, spesso vi rimirerò in Croce, dove vi troverò esemplare del terzo grado di umiltà. Non devo adunque soltanto stimare ed amare la povertà, l'umiltà ed il patire; ma avrò a desiderare queste tre virtù. Per praticare le quali, e per desiderarle come sommo bene e mia porzione, mi terrò quale servo nella congregazione del mio padre s. Filippo, e quale servo pure nella Casa della Provvidenza del santo padre Gaetano. Visiterò ammalati e poveri, tenendomi presso di loro quale servo ».

Il   servizio del prossimo quindi in p. Luigi era come in Paolo:

«…nos autem servos vestros per Jesum » (Il Cor. 4, 5), e chissà quanto la sua anima avrebbe gioito nel leggere gli alti insegnamenti del Vaticano Il sulla

« teologia del servizio », specialmente nelle costituzioni Lumen Gentium e Gaudium et Spes: solo in questo clima soprannaturale si può com­prendere e attuare quello che il Concilio ha chiamato « dialogo » (colloquium) col mondo moderno.

Ascetica e mistica, apostolato e immolazione si fondono nell’anima dello Scrosoppi in una vocazione di eccezione. Ma anche qui egli operò una scelta. Non sul Gesù dei miracoli e del Tabor, non sul Gesù risorto, non sul Gesù che siede alla destra del Padre. Ma sul Gesù povero sopra la paglia di Betlem, sul Gesù operoso e celato della casa di Nazaret, sul Gesù sanguinante della Via Crucis, sul Gesù nascosto nell'Eucaristia. E, appunto per questo, sul Gesù vivente negli umili, nei poveri e negli ammalati; sul Gesù vivente nella comunità congregata nel suo amore e nel suo nome. Una prospettiva permanentemente valida, e insieme molto moderna (checché si dica in contrario, nella colluvie delle pubblicazioni e riviste neomoderniste di oggi), della vita religiosa ». Ed il commento che segue sta all'altezza del testo ove l'egregio autore sembra immedesimarsi col suo umile eroe. Questi - ci dice - era il Gesù da amare e da servire; questi era il Gesù sposo dell'anima, di ogni anima cristiana, ma con maggiore accento dell'anima religiosa. Solo una meschina superficialità o grotteschi residui di sentimentalismo possono ignorare o travisare la potente istanza di tale sponsalità.

La vita di p. Luigi Scrosoppi, a differenza di quella di altri santi e fondatori, non presenta spettacolari crisi di conversione: tutto nella sua vita, anche nei gesti più eroici, scorre in semplicità e nascondimento, anche se non mancano fenomeni singolari della grazia.

Per la vita di p. Luigi Scrosoppi, fatte ovviamente le debite proporzioni, possono valere le parole che il Manzoni ha per Federigo Borromeo. Anch'egli - si può riconoscere e qui la magnificenza dello stile non nuoce - benché relegato ai confini d'Italia e quasi ignorato dalla cultura e dalla storia ufficiale «...fu degli uomini rari in qualunque tempo che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi di una grande opulenza, tutti i vantaggi di una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell'esercizio del meglio». Ed anche la vita dell’umile filippino friulano, pur con varianti esteriori dovute alla diversità dei tempi e dell’ambiente, è stato «come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidirsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume » (I Promessi Sposi, c. 22).