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  Tratto dal libro “Padre Luigi Scrosoppi” di mons. Guglielmo Biasutti

 

Carlo Filaferro «prete dell'Oratorio». 

          Chiesa S. Maria Maddalena (UD)
L'Oratorio era una speciale associazione religiosa di laici e di sacerdoti, che si raccoglievano a meditare insieme sulle verità della fede e a compiere alcune particolari pratiche di pietà. Fondato in Roma da S. Filippo Neri, s'era ben presto diffuso in tutto l'urbe cattolico.
Ne sorse uno anche in Udine nel 1629; e poi altri due a San Daniele del Friuli e a Tolmezzo.
L'Oratorio di Udine tenne dapprima le sue adunanze nella chiesetta della Compagnia del Crocifisso, ma nel 1643 ottenne una propria sede nell'antica Chiesa di S. Maria Maddalena, ora scomparsa, la cui area è occupata dal palazzo delle poste.
All'Oratorio, sino dai tempi di S. Filippo, s'era aggiunta la «Congregazione dell'Oratorio», cioè un gruppo di preti e di confratelli laici, i quali senza emettere voti religiosi, facevano vita comune.
A Udine la congregazione era stata istituita nel 1658, in seguito a concessione ducale del 7 giugno di quell'anno. I membri della congregazione dovevano essere per regola abbastanza abbienti e restavano proprietari dei loro beni, le cui rendite, però, devolvevano o a beneficio della congregazione stessa o in opere di carità. I preti che ne facevano parte si impegnavano particolarmente ad esercitare il ministero sacerdotale in modo del tutto gratuito, per togliere la pur minima ombra di interesse economico. Senza dubbio fu questo aspetto di gratuità e di pura spiritualità che attrasse il giovane Carlo tra i padri dell'Oratorio.
Ma la sua scelta ebbe il netto sapore di una sfida spirituale. Bisogna ricordare che il regime napoleonico, sotto la patina utilitaria di religiosità (vd. ad es. il catechismo imposto da Napoleone), conservava uno spirito altero, rapace ed oppressivo verso le cose religiose.
Proprio il giorno di Pasqua 1806 le autorità civili facevano al capitolo di Udine il regalo di un uovo pasquale di amara sorpresa. Prima della messa solenne un impiegato, con un codazzo di gendarmi, irrompeva nella sacrestia della cattedrale e prendeva possesso del «tesoro» ricostituito dopo la razzia degli ori e argenti sacri perpetrata dai francesi nel 1797.
Nel frattempo venivano estese anche al Veneto e al Friuli le leggi di politica ecclesiastica già applicate nel Regno Italico, che prevedevano, tra l'altro, la soppressione delle confraternite e di molte case religiose.
La stessa congregazione filippina viveva sotto l'incubo dello scioglimento. Il 6 agosto 1806 il capitolo di Udine - la sede arcivescovile era allora vacante - deliberava di interessarsi a favore degli oratoriani, tanto benemeriti della vita religiosa cittadina.
Esattamente in quel periodo di incertezza e di ansia, Carlo Filaferro, di vent'anni non compiuti, e Antonio Specie da Resiutta, di diciotto e mezzo, chiedevano di essere accolti nella congregazione minacciata. Il 2 settembre 1806 i padri della congregazione decisero di accelerare l'accettazione «per un grave motivo che nasce dalle presenti scabrose circostanze». Il 6 settembre i due chierici fecero «con sommo loro contento il loro ingresso in congregazione». E la domenica 5 ottobre, solennità del Rosario, i due postulanti che erano già negli ordini minori,  vestivano «con somma gioia» l'abito di S. Filippo.
Così, sino dal 6 settembre, Carlo lasciò la famiglia Scrosoppi e andò ad abitare nella casa della congregazione filippina, ora sede della questura di Udine. Da allora chissà quante volte mamma Antonia, coi suoi frugoletti, sarà scesa a quella casa o alla chiesa di s. Maria Maddalena, per vedere il suo primogenito e goderne la dolce e pia conversazione!
Il 16 marzo 1808 il chierico Carlo Filaferro costituì a se stesso il patrimonio ecclesiastico, prescritto dai sinodi per quanti aspiravano agli ordini maggiori. Il patrimonio consistette in due casupole in Gemona, ereditate dal defunto prozio don Giuseppe Filaferro, morto nel 1799, in un piccolo capitale cedutogli dalla madre e in un altro capitale aggiunto dal patrigno Domenico Scrosoppi.



Facciata della Chiesa S. Maria Maddalena

 

L'11 giugno 1808 Carlo veniva ordinato suddiacono; e il 17 dicembre dello stesso anno diacono.
Già sin dal 1815 alcuni cittadini udinesi - tra cui il sig. Domenico Scrosoppi - avevano inoltrato una petizione all'imperatore d'Austria, affinché consentisse il ripristino dei filippini in Udine, e probabilmente si dovette anche a questo se p. Carlo rinunciò allora a farsi gesuita. Ma la domanda non venne accolta.
Né se ne concluse nulla nei seguenti venticinque anni.
Ma vi ripensò p. Carlo nel 1840, appena venne affidata a lui la rettoria della chiesa di s. Maria Maddalena. Poiché non c'era da sperare che il governo austriaco restituisse la vecchia casa, adibita per gli uffici della delegazione provinciale - ora sede della questura e della prefettura - iniziò immediatamente delle trattative coi fratelli Francesco e Niccolò Braida per acquistare l'edificio al n. 1850 di allora all'estrema parte nord del moderno palazzo delle poste. Con l'entusiastica approvazione del vescovo mons. Lodi e con la sottoscrizione per quote diverse di ventotto cittadini, il 26 gennaio 1842, poté far redigere il contratto di compera. E due mesi e mezzo dopo, il 9 aprile, arrivava finalmente il rescritto imperiale che approvava il “ripristino della Congregazione dei filippini in Udine, sotto la condizione che la medesima non cada mai a carico dell'erario o d'altro fondo pubblico, e che deggia prestarsi nella cura d'anime in dipendenza dell'ordinario diocesano, conservandosi poi clementemente la corrisponsione in corso di annue lire 344,82 alla chiesa di Santa Maria Maddalena da cedersi definitivamente alla Congregazione...
La casa Braida era tuttavia malsana e inadatta ad accogliete i nuovi filippini.
Vi si aggiunse poi un'altra difficoltà. Benché la risoluzione imperiale del 9 aprile 1842 avesse sancito il passaggio della Chiesa in proprietà della ricostituenda Congregazione, la burocrazia volle il consueto contributo di pazienza. P. Carlo dovette affannarsi oltre tre anni perché la promessa venisse mantenuta. Solo il 4 novembre 1845 il can. Faraj poteva scrivergli da Venezia: «Evviva! Evviva! In questo giorno, sacro a S. Carlo Borromeo, con cui molto bene se la intendea S. Filippo, in questo giorno, benché ad ora tarda, mi pervenne la sicura notizia del decreto favorevole per i filippini di Udine». La consegna della Chiesa venne effettivamente fatta l'8 gennaio 1846.
E finalmente il 26 maggio p. Carlo, p. Antonio Specie, anche lui ex filippino, don Luigi Scrosoppi e il frate laico Lorenzo Menon, pure superstite della disciolta congregazione, si riunirono nella Chiesa di s. Maria Maddalena per ricostituirla; e p. Carlo fu ovviamente eletto preposito.
Quattro mesi e mezzo dopo! Perché mai?
Senza dubbio p. Carlo sperò che si affiancasse a lui qualcuno degli ottimi sacerdoti addetti al servizio della stessa chiesa. Invece, benché gli fossero molto affezionati e ne condividessero gli ideali, nessuno aderì: non il Someda, non il Benedetti, non il Fantoni, non il Liccaro, nemmeno don Giovanni Battista Scrosoppi. Eppure, avevan tutti le doti e lo spirito richiesti in un buon filippino. Ma i tempi eran mutati e il futuro si presentava quanto mai incerto e nebuloso.
Vien da pensare che agli inviti di p. Carlo non abbiano opposto dei secchi dinieghi, ma un mucchio di esitazioni e di prudenziali riserve. Esattamente quel che ci voleva per far scattare don Luigi.
Il quale deve aver detto, una volta di più, a p. Carlo:  "Abbiamo ricercato abbastanza il consenso degli uomini per rimettere in piedi la Congregazione. Ormai i tre padri necessari ci sono: voi e p. Specie; e il terzo eccolo qui. Per l'avvenire confidiamo nel Signore".
Pensiamo che effettivamente sia accaduto così, perché otto anni dopo vedremo ripetersi la stessa situazione di prudenti dilazioni. E sarà lo stesso p. Luigi a rompere gli indugi, quasi tempestosamente, a rischio di incrinare l'amicizia col carissimo e venerato don Benedetti. Ciò avverrà perché p. Carlo, pur ripristinando formalmente nel 1846 la Congregazione filippina, non attuò mai il convitto, cioè la vita comunitaria dei membri della Congregazione stessa. Compito che, dopo la sua morte, si assumerà appunto p. Luigi.
Nello slancio e nella tenacia, con cui p. Luigi volle il ristabilimento dei filippini, oltre alla sua devozione verso p. Carlo, ch'egli tanto amava, possiamo scorgere  certamente la brama di consumare - per così dire - la dedizione sacerdotale del 1827 con l'accentuata generosità del «religioso», ed anzi di consumarla nello spirito di «Pippo buono»
(così veniva chiamato S. Filippo Neri), del quale s'era imbevuto sino dalla fanciullezza. Ma c'era parecchio di più.
Proprio perché i tempi volgevano al peggio, per il sentire religioso di molti, egli riteneva quanto mai necessario custodire e ravvivare il coraggio cristiano dei fervorosi, che era uno degli scopi precipui dell'Oratorio filippino. Se questo non aveva mai cessato di vivere, sappiamo che p. Luigi procurò di ridargli vigore.
Ma egli sognava inoltre di far sorgere, come è costume nelle case della Congregazione filippina, un centro di formazione cristiana per la gioventù maschile operaia e studentesca della città di Udine, od almeno una specie di circolo giovanile cattolico ante litteram. Non vi riuscì, specialmente per mancanza di collaboratori idonei, o vi riuscì solo in minima parte. Ma si comprende benissimo, a questa luce, perché abbia dato, molti anni dopo, un ingente appoggio alle iniziative similari dell'abate Giovanni Dal Negro, nelle quali vedeva avverarsi i suoi sogni apostolici.
Occorreva dire tutto questo per dare il pieno significato alla scelta filippina di don Luigi. Con la quale, ad ogni modo, egli cessa di essere «don» per diventare «padre». 

Testo di p Luigi sulla vita di S. Filippo Neri

L'anno di prova, prescritto dalla regola filippina, si compì il 9 novembre 1856, seconda domenica del mese, nella quale allora cadeva la festa del Patrocinio di Maria SS. La minuscola comunità - il Bettini, lo Scrosoppi, il Deotti - annunciava all'arcivescovo con una lettera l'avvenuta costituzione.
«La divina Provvidenza - vi si dice all'inizio -, che mercé la Congregazione dell'Oratorio ha operati, ed opera sì gran bene a vantaggio della società, ha fatto giungere finalmente quel fausto giorno in cui questo mezzo di bene rinasca in questa città, e si ravvivino le pratiche istituite dal S. padre Filippo, tanto efficaci a rimettere sul buon sentiero gli sviati, e tanto care ai pii».
Dopo aver accennato alle fatiche di padre Carlo - di cara e santa memoria - ed al decreto imperiale del 9 aprile 1842, al quale si fa risalire la risurrezione legale della Congregazione, si accenna che le pie pratiche oratoriane erano già state reintrodotte da P. Carlo e continuate sotto la reggenza dell'esimio d. Pietro Benedetti.
«Oggi finalmente, sotto gli auspici del Patrocinio di Maria Madre di Dio e del nostro S. padre Filippo, acconsentendo e benedicendo l'Eccell. V. Reverendissima, la Congregazione formalmente risorge. Gli uniti sottoscritti coll'assistenza del m.r. padre Ferdinando Bettini della Congregazione dell'Oratorio di Venezia danno principio nelle statuite forme alle pratiche della Congregazione dell'Oratorio. Quindi a tenore delle regole sono passati a creare un superiore nella persona del m.r. padre Luigi Scrosoppi...»
Il giorno dopo l'arcivescovo mons. Trevisanato emetteva un decreto col quale p. Luigi veniva nominato anche rettore della Chiesa di s. Maria Maddalena, ed inviava una bella lettera a don Benedetti ringraziandolo dell'opera prestata e pregandolo a «continuare collo stesso zelo ad assistere alle anime in detta chiesa». Il Benedetti lo fece sino alla morte, che lo colse nel 1869.
Era trascorsa da pochi giorni la festa di san Carlo Borromeo. E probabilmente s'era scelta la domenica successiva al 4 novembre, proprio per rendere onore a p. Carlo che aveva tanto bramato quel giorno. Padre Luigi sicuramente così ha pensato al suo dilettissimo fratello. 

La Congregazione filippina non attecchisce 

Sotto la rettoria di padre Luigi la Chiesa di s. Maria Maddalena continuò ad essere, quale era sempre stata, il centro più vivo di devozione nella città di Udine. Ebbe, anzi, un soprassalto di fervore. Oltre che per le pratiche oratoriane, si distingueva specialmente per la coroncina all'Addolorata dalla domenica di sessagesima all'ultimo dì di carnevale, per la solenne celebrazione del mese mariano iniziata prima del 1850 e per l'intensità del culto ai Cuori di Gesù e di Maria. Una doppia pagella dal titolo “Ricordi lasciati ai divoti di Maria Santissima nel mese di maggio 1863 nella Chiesa dei PP. Filippini di Udine” ci ricorda che dall'anno antecedente s'usava in quella chiesa la «Formula della oblazione del Cuore a Maria».
Il quotidiano irreligioso Il Friuli del 21 ottobre 1884 scriverà che l'arcivescovo mons. Casasola aveva voluto sostituire la Chiesa arcivescovile di s. Antonio alla soppressa Chiesa dei filippini «per le donne spirituali»: l'ironia astiosa sta a dimostrare come si ricordasse ancora quale focolare di pietà era stata la Chiesa di s. Maria Maddalena. Se padre Luigi ne fu il direttore e l'anima, buona parte di merito va tuttavia attribuita ai suoi diletti confratelli ed amici, che continuarono ad esercitarvi il ministero: al Benedetti, al Someda ed al Fantoni, ai quali s'era aggiunto don Valentino Liccaro.
Fioriva, quindi, la vitalità della Chiesa: ma non fiorì quella della rinata Congregazione filippina.
I due sacerdoti buoni e benestanti, a cui aveva accennato il Benedetti nella sua « Memoria », non si fecero vivi, benché la casa fosse stata ridotta in buone condizioni. Né aderirono quei due sacerdoti poveri, che p. Luigi aveva pensato di mandare alla Congregazione di Verona, perché vi attingessero lo spirito filippino; progetto al quale, però, aveva opposto delle difficoltà sin dal 3 ottobre 1854 il p. Sorio, preposito di quella casa.
Egli tentò allora di ottenere qualche membro dalle congregazioni filippine esistenti in altre città. «Dispiacente» si dichiarò il 20 maggio 1856 p. Giacomo Miconiz dell'Oratorio di Brescia. E quel sant'uomo del can. Niccolò Gio.Batta Olivieri, l'apostolo delle morette, che il Padre aveva conosciuto in Udine ed ai cui buoni uffici si era raccomandato, gli scriveva il 2 giugno 1856 ed il 18 febbraio 1860 che erano impossibilitate a dare soggetti, rispettivamente le case filippine di Firenze e di Roma.
Solamente quella di Venezia gli mandò il 6 gennaio 1857 il padre Vincenzo Frucco, mentre il Bettini ritornava laggiù, perché la Congregazione di Udine avesse almeno il minimo di tre padri. Ma il Frucco dopo quattro anni, per ragioni di salute, faceva lui pure ritorno alla Serenissima.
Gli rimase costantemente fedele soltanto fra Francesco Zaninotti. Altri quattro restarono qualche tempo e poi se ne uscirono, per salute o per passare ad altri ordini religiosi.
Fallivano così le speranze e le sante aspirazioni del p. Scrosoppi di suscitare un manipolo di apostoli animosi. Falliva il progetto di promuovere intorno alla Congregazione filippina un fervido movimento per le missioni al popolo, missioni che sembravano l'unico rimedio contro l'infiltrazione di tanti errori ed il progressivo declino del sentire cristiano.
Eppure il bene bisognava farlo. Se nessuno voleva varcare le soglie della casa filippina per spontanea dedizione, p. Luigi ne spalancò le porte ad apostoli che la Provvidenza gli mandò per altre vie: ai gesuiti.
 

Soppressione e confisca 


Altare chiesa S. Maria Maddalena (UD)
dove p. Luigi ha celebrato la sua prima
Messa (chiesa parrocchiale di Artegna).


Altro mobilio della Chiesa di S. Maria Maddalena

Con una legge del 7 luglio 1866 vennero estese a tutto il Regno d'Italia le leggi già emanate negli Stati Sardi sulla soppressione delle corporazioni e congregazioni religiose e sulla « conversione » dei loro beni allo stato. Padre Luigi ricevette il primo avviso che anche la Congregazione filippina udinese cadeva sotto quella legge il 21 dicembre: un triste dono di Natale.
Dovremmo ora narrare le lunghe ed amare vicende che ne seguirono e gli sforzi compiuti da lui per salvare la Congregazione od almeno la Chiesa di s. Maria Maddalena. Vi accenneremo soltanto.
A nulla riuscì il tentativo di far dichiarare esenti i filippini dalla legge di soppressione, tentativo compiuto dal Padre assieme coi prepositi degli Oratori di Chioggia, di Venezia e di Padova. Vane riuscirono le petizioni di ben sessantotto cittadini, nel maggio 1868, perché la Chiesa fosse ridata al culto, ed altre eguali di alcune dame udinesi del luglio successivo. Inutili le dichiarazioni di sacerdoti o laici che alcuni arredi sacri eran di proprietà privata, dichiarazioni fatte nella prima metà del 1868 per salvare qualcosa dalle grinfie del fisco.
Ed ecco alcune tappe del consumato calvario.
Il 2 aprile 1867 p. Scrosoppi dovette rassegnarsi a presentare la denunzia dei beni mobili ed immobili della Congregazione, accompagnandola con questa lettera: « Regio delegato, nel consegnarle la denuncia impostaci dall'articolo 13 della legge del 7 luglio 1866, il sottoscritto padre preposito, in ossequio alle leggi divine ed ecclesiastiche, protesta che deve prestarsi a tali atti e conseguenti volutisi per la sola necessità di evitare mali maggiori, e per non recare più grave danno ai membri di questa Congregazione dell'Oratorio ».
Il 24 aprile - tre giorni dopo Pasqua! - il delegato alla r. intendenza di finanza di Udine procedeva « alle operazioni di inventario e presa di possesso », ordinando a voce che casa e chiesa venissero sgombrate entro il 9 maggio, data che venne posticipata al 18 e quindi irrevocabilmente al 29. In quei giorni padre Luigi si recò a Castellavazzo bellunese per una progettata fondazione delle suore della Provvidenza; ma probabilmente lo fece nella illusione che la sua assenza avrebbe ritardato ancora l'inesorabile decisione e forse sperò che il suo caro san Filippo, la cui festa cadeva il 26 maggio, gli avrebbe ottenuto un miracolo. Avvertito che ogni speranza era vana, si riprecipitò ad Udine, dove non gli restò che subire confisca e sfratto.
Il Padre - scrive il Tinti - accorse sollecito a celebrare di buon mattino la santa messa ed a consumare per l'ultima volta le sacre Specie racchiuse nel tabernacolo; e benché gli arridesse ancora la speranza di redimere la Chiesa dal demanio, e riaprirla al culto, tuttavia egli si prestò a quell'atto doloroso con amare lagrime, col cuore straziato al pensiero di vedere così impedito il tanto bene spirituale che operavasi in quella casa di Dio. All'affanno del padre Luigi partecipavano vivamente i suoi confratelli e gran parte dei cittadini...
Da alcuni mesi s'era rifugiato nella casa della congregazione don Giovanni Battista Scrosoppi, cacciato per motivi politici dalla sua pieve arcipretale di Sacile. Ora i due fratelli saranno accomunati nella medesima sorte. Cacciati insieme da quella casa, si sistemarono alla meglio in alcuni vani presso l'Istituto per le Sordomute, a pochi passi dalla Casa delle Derelitte.
Il 7 luglio 1868 sui muri di Udine veniva affisso un “avviso d’asta” a forma di manifesto, nel quale si annunziava che il 13 del mese sarebbero stati messi al pubblico incanto arredi e mobili di chiese e conventi soppressi, tra i quali si comprendono gli altari, l’organo, le campane della ex chiesa dei filippini ed altri della stessa provenienza. Vane furono le proteste e le lettere di supplica di p. Luigi. 

Ma S. Filippo gli restò nel cuore

 Quel bravo e sant'uomo di mons. Giuseppe Vale, commentando l'intimazione di sfratto dei filippini dalla loro casa, lasciò scritto:
«Bella legge! fatta da ladri, fatta per ladri ed eseguita da ladri!...»
Vi traspira il forte risentimento del clero vissuto nei tempi avvelenati dall'anticlericalismo.
Tuttavia, se gli predarono casa e chiesa, nessuno poté rapire al p. Scrosoppi quel che veramente contava, cioè lo spirito di «Pippo buono».
Anzitutto la sua dolce umiltà. Un giorno, parecchi anni dopo la soppressione, venne da Cormons ad Udine il gesuita p. Giuseppe Rossi, ed il Padre desiderò fargli visitare la casa di campagna in Orzano. Detto fatto, si attacca il cavallo alla carrozza. Per l'occasione padre Luigi avrà voluto certamente «Puppa», che era più gagliardo e veloce, e non «Bagalin», un ronzino lento e meschinello. Ma ecco sorgere un contrasto fra i due religiosi su chi doveva salire per primo. E non la finivan più. Toccò cedere a padre Rossi, che montò esclamando: «Il mio padre sant'Ignazio vuole l'obbedienza». E padre Luigi replicò sorridente: «Ed il mio san Filippo, vuole l'umiltà ».
E poi la dolcezza. Padre Luigi ne aveva bisogno, ché aveva per natura un temperamento alquanto irritabile. Per questo aveva inserito nel suo regolamento di vita quella frase: Semper mel in ore, et mel in corde. Se poi s'aggiunge la volontà ferrigna ed una certa inclinazione alla severità, la dose del miele doveva venire raddoppiata. San Filippo gliene riversò tanto di quel miele, che egli rimase nella memoria di quanti lo conobbero col titolo di «padrut», cioè di «buon piccolo padre».
Dal santo della letizia imparò a diventare anche lui maestro di allegria spirituale e di pace e derivò persino una qualche voglia di burlare. In primo luogo se stesso, umiliandosi talora sino a suscitare il sorriso. E se c'era in giro qualche crestina, oh come gli piaceva metterla a beffa! Non per avvilire: solo per raddolcire i manici di scopa.
Questo vezzo gli rimase sino sul letto di morte. Gli era infermiera suor Osanna Tisot, un tantinello paronzona e nasuta. Cosa le combina padre Luigi, ormai agli ultimi? Le fa calzare delle ciabattone, preparate per quel gigante di don Luigi Costantini, e le fa indossare sul saio un suo sdruscito scapolare di lana, non propriamente olezzante. La suora aveva allora trentasett'anni; e, benché la vanità debba restar fuori di convento, non le garbava certo di far da mascherotto. Per buona sorte, e perché allenata altre volte con simili metodi, se la prese anche lei alla filippina. E forse strappò al Padre moribondo gli estremi sorrisi.
E non fu la reliquia di san Filippo, ereditata da padre Carlo e custodita con geloso amore, non fu quella reliquia a fargli presentire - come egli credette - con un misterioso tic-tac di partirsene per il Cielo?