Un pò di diario
quasi letterario


Giovedì 2 gennaio 1997

Ho letto un saggio sulla modernità in letteratura (E. Raimondi, Le poetiche della modernità). 

La mia capacità di capire dei libri scritti male è proprio scarsa. Il risultato della lettura è che non ne so molto di più di cosa in realtà abbia caratterizzato la modernità nella letteratura in Italia. 

Il fatto che il libro non aiuti uno come me a capire in modo sintetico cosa sia veramente successo è certo indice che non è un buon libro. Perlomeno non lo è nel senso che non si preoccupa di lasciare un segno sui non specialisti. Detto questo, però mi rimane la bocca amara. In realtà ho vissuto in un secolo pieno di cambiamenti - ed il libro almeno mi fa capire che è stato così - senza percepire veramente in che mondo ho vissuto. Non sono in grado di riflettere su cosa ha caratterizzato l’ambiente in cui pure sono ben vissuto e cresciuto. E’ come se fossi sempre stato su una nave isolata dal mondo, salvo le notizie lette sui giornali che arrivavano a bordo, ma di cui ho difficoltà a ricordare anche le cose più importanti da essi riferite, sugli avvenimenti, su come andava, cosa succedeva nel mondo a terra, fuori della nave.

Se vi è stata una modernità che ha caratterizzato questo secolo, facendolo diverso dal passato, in particolare dal secolo scorso (caratterizzato dal romanticismo, dal positivismo?) in che modo io ne ho partecipato? 
Da giovane pensavo di essere nel centro della modernità per aver scelto il lavoro della ricerca scientifica. Ma anche del mondo della ricerca non so molto. Posso dire di aver vissuto pensando che la vita fosse piena, così, per il fatto di viverla con tutti gli impegni che mi hanno occupato tempo e pensieri. In realtà non ho mai avuto modo di riflettere sulle problematiche generali che si dibattevano anche nell’ambiente della scienza. In ogni caso nessun approfondimento.
Figurarsi poi per quanto riguarda aver percepito cosa succedeva nel campo più generale della cultura. Ho letto poco o niente, e anche di quel poco non è rimasto molto. E’ come se la vita fosse un fiume in cui sono stato immerso, ma coperto da una sostanza idrorepellente. L’acqua ci è passata sopra senza lasciare tracce di bagnato.

E’ possibile trovare il modo di ricuperare il senso di quello che c’è stato? E’ importante? Da dove cominciare? Dal passato lontano o da quello recente? Dal leggere romanzi o critiche? Ed i filosofi? Se non si sa niente di Aristotele è possibile capire Kant, per non parlare di Heidegger?

venerdì 3 gennaio 1997

Oggi è venuto un giovane che mi ha fatto una consulenza sul computer. E’ un operaio che lavora alla catena di montaggio a Mirafiori. Fin da ragazzo aveva la passione per i computer. Prima i giochi, poi via via si è interessato a cose più difficili. Ad es. la grafica. Ha seguito un corso per operatore. Morale: sa assemblare dei PC, installa i programmi, ottimizza l’uso delle memorie, mette i computer in rete. E’ la sua passione. Forse ha dei problemi con la moglie perché spende troppi soldi.

Mi parlava della fortuna che ha avuto a trovare da un amico una stampante a colori, molto bella, pagandola mezzo milione invece di tre volte tanto. L’amico se ne è dovuto liberare perché il figlio piccolo gli tocca tutto e finirebbe per rovinarla. Ha comperato un software uscito da poco, per poi scoprire che è stato subito sostituito da una versione molto migliore. Un pò di soldi che gli permettono di sostenere la sua passione li guadagna facendo assistenza tecnica a degli sprovveduti come il sottoscritto.

Mi ha fatto tenerezza e mi ha ridato fiducia che il mondo non è poi molto diverso dal mio di allora. Giovani, entusiasti di fare, esistono ancora. Che vogliono approfondire sempre più, che guardano al futuro come qualcosa da loro costruito.

Certo, lui non finirà manovale alla catena di montaggio.

 

sabato 4 gennaio 199

Ho finito di leggere Il Mito Asburgico di Claudio Magris.

In un Paese senza patria come il nostro, colpisce la struggente nostalgia per un passato perduto, per un modo di vita, ma anche per un impero ed un imperatore, per un’organizzazione della vita ordinata e tranquilla. Magris dice che tre sono le componenti di questa nostalgia: l’internazionalità dell’impero che comprendeva tanti popoli e lingue diverse, la burocrazia stupidotta ma che dava senso di ordine e stabilità, l’edonismo (il senso godereccio della vita in particolare nella capitale). Che si tratti di un mito è forse visibile dal fatto che gli scrittori che più ne hanno parlato con nostalgia sono venuti dopo la caduta dell’impero (Roth, Zweig, Weigel, Musil). Ma anche durante l’impero molti scrittori sentivano una nostalgia anticipata nel descrivere il loro mondo presente, perché ne sentivano il declino, la fine (Grillparzer, Hoffmansthal, Schnitzler).

La lettura del libro di Magris ti fa sentire orfano di un analogo sentimento. Di cosa potremmo noi essere nostalgici? Della nostra giovinezza, certo, ma non dell’Italia. Il ricordo del passato nazionale ci sembra solo retorica. Mazzini? Garibaldi? Quando si parla della nostra burocrazia se si rimpiange qualcosa è solo quella di Maria Teresa. Meno male, si dice, che in alcune parti d’Italia c’è stata una burocrazia asburgica, (magari riferendosi a quel poco che ancora funziona del catasto). Se vi è, non dico nostalgia ma una qualche fierezza del passato, si deve andare troppo indietro, dove i ricordi sono solo scolastici. Al Rinascimento, magari.

Esiste una letteratura che ci permetta di sentire la nostalgia per un paese che c’è stato e che ora non c’è più? Se si pensa al Carducci, viene fuori soprattutto, ormai, l’idea di un retorico trombone. La letteratura minore di fine secolo scorso? Più che del Paese con la maiuscola, si può percepire la nostalgia per il particolare paese minuscolo, per il luogo natio. Un’Italia provinciale fatta di nostalgie provinciali. Nessun epos nazionale. (Forse l’unico libro che ti fa sentire un’epica italica è il Sergente della neve, un’epica della disfatta, purtroppo.) Forse è per questo che mi tocca da vicino, provo simpatia per il mito asburgico, e vorrei poter leggere o rileggere gli scrittori che ne hanno descritto le caratteristiche. 

Mi ricordo che Il Mondo di Ieri di Zweig mi aveva fatto allora una grande impressione. Forse è indicativo il fatto che a raccomandarmelo fosse stato Stelio, un discendente dell’impero asburgico (madre slovena, padre triestino). E di Musil, dell’Uomo senza qualità, cosa ricordo?

La memoria! Ecco un altro oggetto di riflessione. Non ho mai cercato di imparare a memoria. Nemmeno delle poesie che ho scritto da giovane ricordo niente! Forse una strofa o due! Che bello sarebbe poter attingere dalla propria memoria le cose lette. Ora sento dentro di me il vuoto. Nel passato si leggeva di fretta soprattutto per mettere da parte, per leggere in un secondo tempo.

Ho cominciato a leggere un altro saggio, Vere Presenze di George Steiner che sostiene che la nostra sta diventando una società delle chiacchiere, del secondario (nel senso di chiacchiere sulla creazione primaria, sui testi), in cui chi fa critica invece di aiutare a leggere facendo delle sintesi, critica dando giudizi. Sarebbe bene invece, secondo Steiner, interpretare - nel senso di fruire direttamente - l’opera d’arte, così come il musicista interpreta un pezzo eseguendolo, e non facendone la critica. Afferma l’importanza di imparare a memoria. 

Ciò che sappiamo par coeur, nel nostro cuore, diventa parte attiva della nostra consapevolezza, regola il ritmo della nostra crescita, di quella diversificazione sempre maggiore che è così vitale per la nostra identità

Un pò eccessiva forse, ma importante notazione.

domenica 5 gennaio 1997

Continua la lettura del saggio di Steiner. Rispetto a quello del Raimondi che ho letto alcuni giorni fa, mi ha fatto riprendere la fiducia nelle mie capacità di comprensione. Non ho capito quasi niente di quello, perché era malscritto. Fa invece piacere la chiarezza di Steiner. Anzi, posso usare quello che dice Steiner per classificare il saggio di Raimondi. Non è un testo, ma un meta-testo, un testo del testo, un secondario di secondari. Libro per specialisti, si può dire. Oppure semplicemente chiacchiere accademiche poco utili almeno per un utente come il sottoscritto.

6 gennaio 1997

La lettura del saggio di Steiner si è fatta un pò più oscura quando entra nel merito del significato del linguaggio. C’è una relazione tra il linguaggio ed il mondo esterno? E’ il linguaggio un fatto naturale o puramente convenzionale? Pare che questo dibattito abbia riempito la filosofia recente, Wittgenstein in testa. 

Ho guardato il Dizionario di Filosofia dell’Abbagnano per scoprire che dedica una diecina di pagine alla voce Linguaggio. La discussione risale ai greci, come mi pare ovvio per ogni questione seria filosofica. Convenzione o naturale?

Il dibattito moderno si incentra sulla concezione del linguaggio come convenzione. Il linguaggio sarebbe un sistema auto-referenziale aperto, che non ha relazione se non convenzionale con le cose. Il linguaggio sarebbe ambiguo ‘polisemico’ e le proposizioni non decidibili (se vere o false). Secondo lo Steiner è una rivoluzione paragonabile a quella della fisica moderna e della non sperimentabilità diretta del mondo (principio di complementarità, interazione tra osservatore e cosa osservata). Mallarmè e Rimbaud sarebbero alla base della rivoluzione. Per Mallarmè nella poesia i vuoti di parola, gli spazi bianchi volutamente lasciati nel testo sarebbero altrettanto significanti che gli spazi pieni di parole. Wittgenstein teorizza la completa convenzionalità nel rappresentare le cose da parte delle parole.

Cosa ne consegue? Steiner si rifà a Barthes per l’idea che il lettore non è più passivo, ma attivo. Il libro si crea mentre si legge. (Secondo Barthes vi sono libri scrivibili e libri solo leggibili.) Il testo non è un tutto unitario, ma un insieme di frammenti che il lettore prende come vuole lui, ed in modo diverso quando legge il testo un’altra volta.

Sono andato a riprendere il libro di Barthes, SZ. Ne ho letto metà un anno fa circa. Non mi ricordo molto. La rilettura delle prime pagine mi ha ridato qualche lume di memoria. Ed è stato Calvino a portarmi nella direzione di Barthes e di Queneau. L’idea che il lettore costruisca lui il libro che legge mi aveva impressionato nel romanzo Se un viaggiatore in una sera d’inverno
L’idea l’ho utilizzata nel romanzo giallo, La Busta Bianca. Lì l’idea era che la verità si può costruire in modi diversi. Si possono mettere assieme i fatti ‘singoli’ per arrivare a verità ‘complessive’ completamente diverse. Come dice Barthes che avvenie nella lettura di un testo. L’apparente verità globale del testo sparisce davanti al lettore che frammenta il testo in pezzi e poi si costruisce lui un suo ‘tutto’. Nel tentativo di trovare la verità in un processo si è in realtà di fronte solo a spezzoni di discorso, a fatti ‘atomici’ che vanno messi assieme, incollati in un tutto verosimile. Il Pubblico Ministero costruisce un tutto completamente diverso da quello che costruisce dagli stessi spezzoni la Difesa.

Sono quasi alla fine del libro di Steiner e sono curioso di capire che cosa dedurrà lo Steiner da tutto questo.

La mia conclusione intanto conferma che la mia vita è passata senza accorgersi per niente della rivoluzione in atto. Può servire a qualcosa cercare ora faticosamente di capire queste riflessioni moderne e post-moderne? Come sarebbe cambiata la mia vita operativa se fossi rimasto più agganciato alla comprensione dei cambiamenti culturali, dei dibattiti, che avvenivano nel mondo e che tra l’altro cercava di mettere assieme le idee nuove della scienza (e la mia vita è stata coinvolta nel fenomeno della scienza moderna) con quelle più generali della concezione del mondo come fatto sociale?

mercoledì 8 gennaio 1997

Terminata la lettura di Steiner. Non è così chiara la consequenzialità tra quanto detto (o da me capito) fino ad ora e le sue conclusioni. Cerchiamo di vedere cosa ne ho capito io.

Consideriamo il fatto sottolineato da Steiner che vi è una differenza sostanziale tra l’opera primaria (l’opera creata dal ‘nulla’) e l’opera secondaria che si riflette su quest’opera primaria, che prende da lei le sue mosse i suoi significati. Da che cosa prende significato l’opera primaria?

Se si pensa al rapporto tra fruitore del testo ed il testo stesso, alla Barthes, allora non mi pare che si possa fare differenza tra testo primario e secondario. Il lettore degli uni e degli altri comunque frammenterà il testo in proposizioni per lui significative e vi costruirà sopra il proprio testo. Un pò come ho fatto io con il testo di Steiner. Ben gli sta, verrebbe voglia di dire, visto che ha tanto bistrattato i testi secondari. Ed anche il suo lo è, anche se in senso generale. Anche se il suo testo primario di riferimento non è una particolare opera d’arte, ma tutte le opere. La loro esistenza permette a Steiner di chiedersi e di elaborare sulla domanda, di perchè esse esistano.

Il discorso che fa Steiner non si riferisce solo alla letteratura ed alla poesia. Lui ci tiene a sottolinearlo. In particolare, pensa che le sue considerazioni siano particolarmente appropriate per la musica. La musica non deve imitare la natura. La musica non ha apparentemente problemi ontologici di rappresentare una realtà esterna. Ma allora, perchè essa ci turba come e più delle opere d’arte letterarie?

giovedì 9 gennaio 1997

Ho terminato la lettura del lungo saggio di Koestler I sonnambuli. E’ un escursus molto dettagliato e pieno di riferimento a testi originali. Dalla antica Grecia percorre lo sviluppo delle conoscenze scientifiche fino a Newton. Sonnambuli, perchè la scienza si è svegliata dopo un lungo sonno, ma anche perchè i progressi sono stati spesso casuali o ottenuti mentre si cercava altro, o camminando al buio.

La lettura è affascinate (anche se un pò pedante a volte) perchè si sofferma a far emergere le personalità dei grandi personaggi attraversati dalla storia. In particolare Copernico, Tycho de Brahe, Keplero e Galilieo. 
Con mia sorpresa la storia di Keplero è più interessante di quella di Galileo. Si vede che a Koestler Galileo non è stato molto simpatico. Però anche leggendo Il processo a Galileo di Santillana, il personaggio Galileo risulta assai diverso da quello che mi sarei aspettato. Innanzi tutto umanamente non deve essere stato molto simpatico. I suoi rapporti con la chiesa e con il mondo accademico sono discutibili. A Keplero che gli ha manifestato in varie occasioni la sua amicizia e voglia di entrare in più stretti contatti, non ha quasi mai risposto. Come scienziato non era riuscito a staccarsi da molte delle idee della fisica aristotelica. Ha preso una grossa cantonata sulle maree, dimenticando il principio che lui stesso aveva illustrato del moto relativo. Era tanta la voglia di avere una prova che la terra si muoveva che pensò che la marea fosse dovuta alla diversità di velocità assoluta di un punto sulla superficie terrestre nelle 12 ore in cui si muove in parallelo al moto della terra sull’orbita e nelle 12 ore quando si muove in senso contrario. Ha preso poi per buono che il moto circolare è un moto perfetto tanto da dire che un corpo per inerzia si muove di moto circolare uniforme.
La figura che ne esce è di un Galileo forte polemista e dialettico e un pò meno scienziato.

Il libro di Koestler mi porta a leggere altri libri sulla storia della scienza.

Comincio con Farrington sulla scienza antica, poi Koyrè (dal mondo chiuso all'universo infinito), Khun (la tensione essenziale) ed infine la visione che del mondo fisico dà Einstein.

venerdì 10 gennaio 1997

Mio fratello mi ha inviato il libro di Preparata QED Coherence in Matter. Avevo sentito Preparata ad un convegno in cui si parlava di quella cosa misteriosa che è la medicina omeopatica e derivati. Il tentativo di capire il perchè possa avere efficacia una medicina in cui la sostanza medicamentale è infinitamente diluita in acqua è legata, forse, alla struttura dell’acqua (ammesso che sia vero che le molecole dell’acqua si raggruppano per grossi gruppi di molecole e che la soluzione di sostanze modifichi detti raggruppamenti e che, se diluisco infinitamente la sostanza, la struttura in gruppi rimane nelle molecole d’acqua).

Preparata, da buon fisico, non era allora, in quel convegno, entrato nel merito specifico del problema, ma aveva fatto capire che attraverso lo studio dei fenomeni di coerenza nel raggruppamento di atomi o molecole sotto l’effetto di campi elettromagnetici anche molto tenui, forse si sarebbe potuto seguire una pista. E aveva allora sollecitato, chi volesse approfondire, a leggere il suo libro. E così il libro è arrivato! Ma è arrivata anche la conferma che malgrado i miei vecchi studi di fisica non credo che vi sia molta differenza nella incapacità che ha uno come me a capire qualcosa dal gruppo di formule di cui il libro è zeppo e uno che non abbia mai studiato fisica. Penso anche che sarebbe un’impresa disperata cercare di ritornare a studiare la fisica (ed assieme la matematica che la supporta) per poi a poco a poco essere in grado di capire qualcosa di più da un libro come quello di Preparata.

Tuttavia ho cercato di leggere, malgrado tutto, un pò di pagine. E continuerò a farlo. D’altra parte, secondo Barthes anche il lettore di un romanzo in realtà lo frammenta in pezzi che poi utilizza per ricomporre a suo modo. Anche se sono capace di prendere solo poche frasi o solo alcune parole, l’importante è poi quale testo io ‘riscrivo’. 
In effetti, ogni tanto qualche illuminazione mi è arrivata tra le righe. Sono contento che la lettura di quelle pagine di Preparata, facendomi forza per superare la difficoltà della totale incomprensione dei simboli e delle formule, produca ciò nonostante delle idee.

domenica 12 gennaio 1997

Su un vecchio foglio di carta ho trovato da me trascritti alcuni proverbi di Goethe.
- La più sottile follia deriva dalla più sottile saggezza.
- La stranezza della nostra condizione comporta che spesso siamo 
  portati dallo stesso vizio a far bene.
- Colui che si conosce è il solo padrone di se.
- L’uomo libero deve qualche volta prendere la libertà di essere schiavo.

Chissà che cosa mi aveva colpito in loro e perchè li avevo trascritti?

Ho letto oggi un articolo di Quirino Principe su Schubert. Non sapevo che è vissuto di stenti, non preso in gran conto da nessuno, senza successo con le donne e morto a 31 anni da conseguenze della sifilide. 
Eppure è stato un genio musicale.
Perchè proprio lui la cui vita era destinata ad essere insignificante, figlio di una famiglia insignificante, con un aspetto fisico insignificante, tormentato dalla famiglia (e dalle donne che ha amato) proprio perchè non rispondeva al loro standard di tranquilla mediocrità? Quirino Principe si chiede se per caso la musica non preesista già e venga trovata da uno piuttosto che da un altro. A caso?

Ma la domanda più importante è fino a che punto Schubert si rendesse conto di essere un genio musicale, che la sua fama post-mortem sarebbe stata ben diversa dalla sua vita. Se sì, forse allora si adatta il penultimo dei proverbi di Goethe: Colui che si conosce è il solo padrone di sé. Padrone al punto, per Schubert, di avere scritto alcune tra le sue opere più grandi nell’ultimo stentato anno della vita, ben cosciente che non sarebbe durato a lungo ancora.

Mi son sempre meravigliato come gli artisti le cui opere sono dispendiose (scultore, regista, architetto) abbiano il coraggio di imbarcarsi nell’impresa di far spendere tanti soldi per un’opera che chissà se sarà veramente un capolavoro. Conoscenza di sé, fiducia di sé? Al punto di non curare se la morte si approssima, la più costosa delle attese.

martedì 14 gennaio 1997

Terminata la lettura del libricino del Farrington Scienza e politica nel mondo antico.

Ne ho ricavato una sensazione quasi dissacrante di vecchi miti derivati dai ricordi scolastici. Platone era un razzista degno di fare da mentore ad Hitler. La sua Repubblica perpetua la stratificazione sociale attraverso addirittura una genetica divisione di uomini: uomini d’oro (i politici ed i governati), uomini d’argento (i guerrieri), uomini di ferro (i contadini ed i lavoratori). La loro condizione è voluta e stabilita dagli dei e salvo rarissimi casi i figli rimangono della ‘sostanza’ dei genitori.
Le religioni sono volute dallo stato come strumenti necessari per assicurare l’ordine stabilito. Pena di morte a chi cerca di insegnare che la verità si trova nella esperienza sensibile. Addirittura una religione per le classi alte (divinità astrali) ed una per il popolo (Giove che punisce con il fulmine, necessità di sacrifici anche umani bene auguranti per le imprese guerriere).

Invece Epicuro è per l’uguaglianza degli uomini, per lo studio della natura e per l’istruzione popolare come strumento di libertà. Si rifà al modello atomistico di Democrito, ma salvaguarda il libero arbitro. Infatti pensa che gli atomi che si muovono disordinatamente (e quindi porterebbero ad un determinismo meccanico) abbiano possibilità di deviazione (volontaria?) dalla loro traiettoria (clinamen) che si aggrega, a livello dell’uomo, nel libero arbitrio. Non esiste l'al di là. L’anima è mortale. Nessuna paura della punizione degli dei, ma in questa vita va cercata l’amicizia e la felicità.

Epicuro ritiene che la natura sia oggetto di un processo di evoluzione. Ad es., il linguaggio è una convenzione: da un suono iniziale per designare gli oggetti si è via via sviluppata la parola che designa ora l’oggetto stesso.
Per Platone invece le parole hanno un significato legato indissolubilmente alla cosa (all’idea paradigmatica) che esse rappresentano. Al punto che il significato stretto della parola serve per deduzioni ‘logiche’. Così, se con la parola psiche (anima) si designa la capacità di movimento autonomo degli esseri viventi, i corpi celesti che si muovono da soli, devono avere anche una psiche, un’anima.

Altra sorpresa riguarda la figura degli stoici. Predicano la virtù, l’onestà. Poi si adattano alle necessità della politica. Per questo avranno successo a Roma, mentre gli epicurei verranno banditi. Diogene distingue ad es. tra dire menzogne e tacere la verità. Così, un commerciante di grano che in condizioni di grave penuria può ottenere un prezzo alto per la merce che tiene in magazzeno, se viene a sapere che sono in arrivo delle navi cariche di grano, è corretto che non lo dica per poter mantenere un prezzo alto sfruttando la legge del mercato.

giovedì 16 gennaio 1997

Dalla lettura del libro di Koyrè Dal mondo chiuso all’universo infinito, mi vengono alcune osservazioni un pò di fantascienza. Sullo spazio, sul tempo, sull'energia, sullo spirito.

Come ogni tanto una particella di materia si combina con l’antimateria e sparisce (lasciandoci tuttavia una luce in sua memoria) non potrebbe ogni tanto anche una parte dello spirito che convive con la materia nel nostro mondo, interagire con lo spirito di un mondo immaginario (un mondo dello spirito così come esiste un mondo dell'antimateria?) e sparire (o ritornare) in quel mondo?

lunedì 20 gennaio 1997

Ancora sul rapporto tra nome e cosa. Se il nome, come pensava Platone, è intimamente legato alla cosa che rappresenta, (Nomen sunt consequentia rerum - i nomi sono conseguenti alle cose), i nomi esistono già come le cose. Allora non è possibile scoprire cose nuove senza nome. Pare che una conseguenza della paura di trovare cose senza nome avesse portato in Grecia a non permettere la dissezione di cadaveri, proprio per non essere davanti a parti non conosciute e senza nome. 

In generale come si può avere spirito di ricerca - quindi esplorazione di terra incognita - se si ha difficoltà a riconoscere che le parole sono convenzioni, che si può cambiare nome alle cose, e quindi dare nomi a cose nuove?

Sembrerà anche banale, ma provato statisticamente, che il successo di una scoperta, di un nuovo prodotto, di un’opera d’arte sia legato al nome più o meno fortunato che gli viene dato. Nomen atque omen.

giovedì 23 gennaio 1997

Non ci meravigliamo più di fronte a fenomeni di cui conosciamo la spiegazione, o che pensiamo di conoscerla. Ma per chi si è trovato la prima volta di fronte a tali fenomeni? Ho letto di come Newton riferì alla Royal Society le sue esperienze con un prisma attraversato dalla luce solare. Un foro nella tapparella per far passare un sottile pennello di luce diretta solare. La meraviglia più grande è che il pennello di luce dopo attraversato il prisma diventa rettangolare ed ingrandito rispetto al pennello di sezione circolare che aveva entrando nel prisma. Fa meno meraviglia a Newton la suddivisone in colori. Newton prova a cambiare il prisma, a ruotarlo, a farlo attraversare dal pennello di luce più verso la cima o la base. Niente da fare, sempre esce un rettangolo ingrandito, oltre che diviso in colori. Ci vuole un genio come Newton per capire come mai, anzi prima di tutto per porsi il problema di capire come mai. Non vuole fare teorie, ma cerca un esperimento che dia la spiegazione. Newton prede due prismi. La luce che attraverso il primo la proietta su un cartone nel quale fa un forellino attraverso cui fa passare via via una parte diversa del rettangolo di colori, ruotando il prisma in modo che ogni volta solo una particolare parte dell’immagine passi attraverso il forellino. Ed il rosso si deflette di meno del blu. Allora ecco la spiegazione dell’ingrandimento dell’immagine dopo aver attraversato il prisma. Sono i colori che attraversando il prisma si separano perché vengono ciascuno deflessi in modo diversi. Ma dove erano questi colori? E’ la luce bianca che in realtà è un composto di colori diversi che grazie al prisma appunto si separano. Oggi diremmo che il vetro del prisma presenta indici di diffrazione diversi per i vari colori.

Fa ridere pensare, al giorno d’oggi, che ci volesse un genio per inventare questo esperimento ‘cruciale’ ma piuttosto banale. Eppure è così. Tutto sembra facile una volta scoperto. Newton ebbe difficoltà a convincere uno scienziato stimato come Hook, che non accettava l’idea che la luce bianca fosse composta da vari colori. Aveva una sua teoria... diversa ed ipotetica.

E cosa dirà un bambino davanti a questo stesso fenomeno, lui che non sa niente della spiegazione? Tempo fa avevo fatto vedere a Pietro (3 anni) come un vetro Borowsky ripartisce la luce del sole in tante macchie colorate. Interesse al fenomeno come a un gioco. Si accontenta che una parola dia la spiegazione: si tratta di diffrazione, dice il nonno. Prende la parola nuova per buona e lo ripete agli altri: è la diffrazione. In fondo per lui è una spiegazione. Almeno, il mistero è inscatolato in una parola. Forse la parola magica rappresenta la sua teoria a priori. Magari più tardi si chiederà il vero perché e cercherà di dare risposte attraverso la esperienza. Sarà davvero così o sarà molto più semplice accontentarsi di sapere che si sa, che qualcuno sa perché avviene il fenomeno? Il nonno lo sa, e tanto basta.

lunedì 3 febbraio 1997

Letto La vocazione teatrale di Wilhelm Meister di Goethe. L’ho letto come un Bildung Roman, un ‘romazo di formazione’. 
Descrive lo sviluppo di un giovane: dalle visioni infantili. alle incertezze strada facendo su cosa sarebbe bene fosse la sua vita, alla tentazione di diventare attore, alle traversie varie che poi alla fine lo faranno decidere per la conferma che le visioni del fanciullo sono la sua vera vocazione. E’ la transizione dalle visioni fantastiche alla dura realtà che è maestra di vita, alla sicurezza alla fine di aver trovato il vero senso della propria esistenza, la propria missione.

Un altro ‘romanzo di formazione’ che ho letto recentemente è Ritratto di signora di Henry James. Qui è una giovane donna che rifiuta una suggestione di vita comoda e conformista perché ha qualcosa dentro che vale di più. Vuol provare da sola a realizzarsi. Naturalmente paga amaramente scoprendo che la vita è ingannevole, piena di falsi profeti. Quelli veri, li riconoscerà solo quando è troppo tardi. Alla fine tuttavia avrà il coraggio di reagire, scappare e salvarsi. Il viaggio attraverso l’esperienza le sarà servito ad imparare. La crisalide finalmente è diventata farfalla.

Sia per Meister che per la giovane signora, al termine del ‘viaggio’ si prospetta una vita ormai tracciata, la scelta è stata fatta, l’apprendistato è terminato. Da allora in poi, tutto procederà come la fine del romanzo lascia prevedere.

Se questa è la struttura tipica del ‘romanzo di formazione, allora anche lo scritto giovanile mio e di Lino e Sergio, La Rivoluzione, è tale. Qui sono tre giovani alla ricerca del loro più genuino modo di essere, della loro vocazione. Uno solo dei tre la realizzerà completamente, diventando una specie di missionario laico. Ma anche gli altri due, calmate le incertezze e la vaga vocazione di darsi agli altri, di fare qualcosa per l’umanità, troveranno nel loro lavoro - nel fare bene il loro lavoro - il modo migliore per servire sé stessi e gli altri. Anche qui il libro finisce facendo intravedere che il viaggio ormai è finito, che il più è fatto, che da allora in poi tutto si svolgerà con pienezza di raggiungimento degli obiettivi ormai chiari, e dello scopo della vita.

Il romanzo di formazione si ferma però sulla porta della maturità. Come se il problema principale fosse quello di decidere da adolescente quale sia la via giusta da prendere. Ma alla fine di quella strada che ne sarà di Wilhelm Meister o della Giovane Signora? E per quanto mi riguarda, anche dei tre della Rivoluzione. Chi assicura che guardandosi indietro siano soddisfatti? Chi ci assicura che ormai stanchi della via scelta diventata routine, non si chiedano di nuovo quale sia lo scopo vero della loro vita? Questo, anche se la scelta non sarà stata cattiva e un certo appagamento l’abbiano avuto. Ma se poi addirittura la scelta si fosse rivelata un fiasco?

Forse ci vorrebbe un ‘romanzo di decostruzione’ che mostri come ci si possa disfare delle scelte fatte, sperando che non sia troppo tardi per completare in modo diverso la propria esistenza. 

Forse sta in questo il dramma della terza età. Non poter più sognare leggendo dei bildung roman adatti alla terza età.

martedì 4 febbraio 1997

Sto leggendo Apocalittici ed Integrati di Umberto Eco. Libro degli anni ‘60 che all’epoca ha fatto scuola. Io tuttavia non ne sapevo niente. Certo avevo sentito l’espressione ‘apocalittici ed integrati’, ma senza saper bene a cosa ci si riferisse, se la congiunzione era tra due aggettivi caratterizzanti lo stesso tipo o invece una contrapposizione di tipi. Capisco ora che ‘apocalittico’ si riferisce a  chi si pone rispetto all’arte di massa (o meglio ai media) in modo critico o addirittura catastrofico (dove ci porterà la cultura di massa?), mentre integrati sono quelli che si trovano bene con i media, che non temono effetti negativi dalla diffusione e standardizzazione della cultura.

Come potevo allora vivere senza curiosità, stando fuori da discorsi importanti che toccavano il modo in cui la società affrontava il presente ed il futuro, che era anche la mia società ed il mio presente e futuro? Ho perso molto? Forse sì, forse ho perso prospettiva. Forse avrei fatto meglio il mio lavoro se avessi cercato di capire anche cose del tipo di quelle che diceva Eco. Invece allora temevo che mi sarei distratto dedicando tempo a capire culture diverse da quelle del mio ambiente e lavoro.

Ma forse è naturale che sia stato così. Il mio ‘romanzo (viaggio) di formazione’ si era ormai consumato, compiuto, ed io avevo scelto e ristretto il mondo in cui vivere. Non è così anche per Meister di Goethe e per la Signora di Henry James? Nel viaggio di formazione la transizione è tra uno stato iniziale in cui tutto il mondo ci pare aperto, per poi alla fine fare delle scelte che pongono limiti e chiudono il nostro mondo. Per Meister sarà il teatro, per i tre della Rivoluzione (il nostro romanzo di formazione) il mondo del lavoro o quello del missionariato. Anche la scelta apparentemente più aperta, quella di aiutare gli altri è una forma di chiusura. In fondo anche quello dei tre che sceglie di rimanere nel Sud ad aiutare i contadini ad emergere dalla loro miseria, finisce per delimitare il campo degli ‘altri’ ad una categoria e ad una situazione limitata.

La scelta di una carriera di lavoro, il metter su famiglia, è una semplificazione della eccessiva complessità di un mondo tutto aperto. Naturalmente l’aver ristretto il mondo in cui viviamo non vuol dire che non vi sia interazione con il resto del mondo. Qui avvengono cose che ci toccano, ma le sentiamo come cose esterne, cui reagiamo per mantenere il nostro mondo chiuso e protetto. E’ come per i sistemi auto-organizzanti. L’ambiente esterno viene percepito in quanto è il mondo interno al sistema che reagisce per mantenere la propria integrità. Il sistema immunologico mette drammaticamente in chiaro il tipo di comportamento verso ciò che ci viene dall’esterno: esso reagisce all’invasione attaccando gli invasori e circoscrivendoli. Non vi è comunicazione e comprensione, ma solo reazione interna, con le regole del mondo interno.

Forse è per questo che è così difficile che il giovane nel suo viaggio di formazione riesca a parlare con chi è più vecchio, con chi può dargli contributi di esperienza, di già vissuto. Il giovane sta facendo le sue scelte di chiusura del mondo in cui vivrà. Cercare di capire chi gli parla è un’operazione di disturbo, sarebbe come dover allargare il mondo su cui ci si sta chiudendo. Troppo difficile, troppo complicato decidere che scelte fare se si sta troppo a sentire chi ci mette in luce che le cose non sono bianche e nere, che c’è di più sotto il sole di quanto immaginato, che tutto non è così semplice...

mercoledì 5 febbraio 1997

Ancora su Apocalittici ed Integrati.
Vi sono tre livelli di cultura: alta, media, bassa. Quella alta è dell’avanguardia. Le espressioni d’arte dell’avanguardia sono destinate ad un’elite che ha capacità coltivate di intenderle. L’arte vera e propria dovrebbe appartenere a questa classe. Naturalmente un’opera d’arte può essere apprezzata anche da chi ha cultura media o bassa. Tuttavia la percezione è meno estesa, più superficiale, che per chi ha gusto coltivato, abitudine all’analisi. La cultura media spesso imita l’avanguardia, ma con forme derivate dalla cultura di massa. L’espressione d’avanguardia diventa stilizzata, i suoi stilemi sono imitati e volgarizzati. Spesso è kitsch il risultato della trasformazione dell’arte in cultura media o di massa.

martedì 18 febbraio 1997

Ho incontrato alcuni ragazzi del liceo. Volevo capire fino a che punto esiste in loro curiosità di sapere, di chiedersi il perché delle cose. Non molto, mi pare. Qualcosa li ha incuriositi dallo studio di fisica, chimica, biologia? Forse solo qualcosa sulla genetica. Un pò poco. Colpa dei professori?
Oppure è così difficile pensare di capire qualcosa del mondo di cose che ci circondano che si rinuncia anche solo a porsi la domanda su come esse funzionano? E’ ancora possibile capire, magari solo a blocchi, tralasciando di capire cosa vi sia all’interno dei singoli blocchi?

Esempio del telefono. Quando i ragazzini fanno un telefono con due scatole di latta ed una corda, magari non capiscono il fenomeno della trasformazione delle onde acustiche in onde elastiche e la loro trasmissione lungo la corda. Però capiscono come fa la voce ad arrivare da uno all’altro. Infatti vedono la corda che collega i due. Quando vi erano i primi telefoni si chiedeva il numero al centralino. Lì qualcuno collegava il filo che veniva dal telefono del richiedente al filo che arrivava al richiesto. Alla fine vi era un filo che assicurava il collegamento. Già più difficile capire come il mio messaggio riesca a collegarsi con l'altro telefono nel caso di centraline elettroniche. Figuriamoci poi se ci si chiede come diavolo faccia il mio segnale a ritrovare il telefono mobile che non si sa dove sia in questo momento. Eppure forse una conoscenza a blocchi è possibile. Dal mio telefono il segnale va via radio all’antenna della cellula in cui mi trovo e da qui irraggiato. In tutto il mondo o solo nella direzione minima necessaria per arrivare al telefono richiesto? C’è un computer che sa dove lui si trova in questo momento e provvede ad indicare che strada far seguire al segnale. Ma come si fa a non confondere il mio segnale con i tanti altri che vanno nella stessa direzione? Forse a grossi blocchi anche questo si può capire. Il segnale è accompagnato da una chiave che aprirà solo il telefono con il numero chiamato. Forse.

Come si fa ad insegnare la scienza ai ragazzi del liceo perché capiscano che esiste un metodo per porsi le domande e cercare di capire come funzionano le cose? Il metodo della comprensione strutturando il sistema incognito in blocchi che via via si possono aprire e cercare di capire separatamente, ma solo dopo che si è capito a blocchi il tutto?

Una volta, quando si era ancora all’origine di una data disciplina scientifica, si suscitava interesse alle nuove scoperte mostrando dei fenomeni curiosi. Era un pò la scienza applicata agli spettacoli da circo. Si vedano le meraviglie dell’ottica o dell’elettrostatica. La meraviglia di fenomeni strani suscitava interesse e forse desiderio di approfondire e di capire. Oggi le applicazioni sono così meravigliose da non destare meraviglia. O forse sono così bene applicate a fini pratici che ci si abitua presto all’idea di dominare l’applicazione usandola attraverso lo schiacciare alcuni bottoni. E se si sa usare, non è necessario capire. Appena non funziona, ci si arrabbia, ma si corre subito dallo specialista, ammesso che lo si trovi.

Se si capisse qualcosa di più, magari solo a blocchi, servirebbe a usare meglio la tecnologia? Forse no. Nel caso della medicina, quando abbiamo qualche malanno, più siamo in grado di definire quale "blocco" non funziona, più tendiamo ad andare subito dallo specialista. Forse sarebbe meglio capire di meno e non cercare di fare da soli una prima diagnosi.

martedì 25 marzo 1997

Ho dedicato alcuni giorni a leggere qualcosa sull’antico Egitto per scrivere rapidamente un giallo per rispondere ad un concorso letterario. Letture abbastanza affascinanti. Una cosa importante mi pare di aver colto, seguendo l’idea che gli egizi fossero i posteri di una civiltà molto avanzata e poi scomparsa: quella di Atlantide. E cioè che potrebbe riproporsi nel futuro, che dalla scienza si torni indietro verso il mito. (sarebbe interessante sviluppare di più l'idea).

Il problema che gli studiosi si sono posti è come sia possibile che i miti e la religione siano apparentemente così primitivi, mentre la loro civiltà certo non lo era, almeno a giudicare dalle opere architettoniche ed artistiche che hanno lasciato. Qualcuno ha pensato che i loro miti in realtà non siano altro che delle metafore implicite (di cui gli stessi egizi non si rendevano conto) di conoscenze scientifiche sul mondo molto avanzate, che si erano perse con la civiltà di Atlantide, ma che erano rimaste come metafore e poi come miti. 

mercoledì 26 marzo 1997

Sempre sull’argomento dei miti come derivati da metafore rappresentative di conoscenze scientifiche avanzate e poi uscite dalla memoria della società, ho scritto a Lino una lettera.

martedì 8 aprile 1997

Sono preso dall’idea che la società umana si avvii verso uno strano destino tenendo conto: a) della crescente incapacità di comprendere la scienza sempre più complicata e complessa e b) del fatto che il mondo artificiale ci diventa sempre più res incognita (a poco a poco abituandoci a nemmeno chiederci più cosa siano gli oggetti e come funzionano). 
Ho scritto a Lino un'altra lettera.

venerdì 11 aprile 1997

Ho partecipato ad un seminario sull’effetto di Internet sull’arte.

Dalla discussione mi sono venute alcune idee che mi sembrano rilevanti sulla tematica del futuro del nostro rapporto con la conoscenza. Ne ho parlato in una lettera a Lino.

Due considerazioni pessimistiche. La prima è che la Rete permette di cumulare una quantità incredibile di informazioni. Tutti vi possono contribuire, ma la complessità stessa dell’organizzazione del cumulo di dati fa sì che non si riesca più a distinguere l’informazione ‘vera’ derivata da analisi scientifiche, ancorata ai fatti, dall’informazione fasulla, generata per gioco, per fantasia o ritrasferendo informazione trasformata secondo operatori non noti. Come si farà a distinguere il vero dal falso?
La seconda considerazione si riferisce al fatto che l'artista è facilitato nella sua opera di trasformazione della ‘realtà’ (possibilità legate alla realtà virtuale). Tuttavia, trasformare la realtà in virtuale, non è più solo un gioco dell’artista, ma diventa una scorciatoia per riuscire comunque a manipolare una massa di informazioni sempre più complessa ed incomprensibile. L’idea che ci trasformeremo in manipolatori di metafore e poi in utilizzatori di riti senza più alcun riferimento con le basi della metafora e dei processi rituali, diventa quindi credibile.

lunedì 14 aprile 1997

Un esempio di come una metafora può trasformarsi in un rito di interesse pratico: l’omeopatia. Qui la metafora è che l’organismo come un sistema auto-organizzantesi reagisce all’informazione che gli proviene dai sintomi del male mettendo in moto meccanismi autonomi di guarigione. La medicina omeopatica viene scelta proprio perché aumenta l’intensità del sintomo del male. Bisogna però dargli la sostanza omeopatica in modo che non gli faccia male, che sia solo un’informazione. Da qui l’idea di diluire infinitamente la sostanza nell’acqua, che però rimarrà portatrice dell’informazione legata alla sostanza. Una specie di segno scritto lasciato dalla sostanza nell’acqua. Procedendo con la metafora, l’informazione data dalla sostanza può essere amplificata (da un amplificatore di segnali elettromagnetici - in fondo i segnali informativi emessi dai corpi sono tutti elettromagnetici) e questo segnale amplificato dato all’organismo malato, che quindi reagirà ancora più rapidamente per sviluppare le difese contro il male che questi messaggi segnalano. Da questa metafora si può derivare una procedura pratica - un rito. Primo punto è determinare quelle sostanze che danno dei segnali all’organismo ai quali lui reagisce. 
In pratica si procede così: si mette una fiala contenente la sostanza in soluzione acquosa in input (antenna) ad un amplificatore. Il segnale amplificato viene immesso nell’organismo tramite un elettrodo in uscita dall’amplificatore, elettrodo tenuto nella mano del paziente. In un’altra parte del corpo si rileva un segnale elettrico che, se esiste, dovrebbe essere un indice della reazione dell’organismo al segnale in ingresso. In effetti la procedura permette di selezionare sostanze che danno tale reazione ed altre no. Si può quindi con questa procedura selezionare le sostanze i cui segnali vengono amplificati. Si può puoi preparare una medicina omeopatica con una diluizione infinita di tutte e sole quelle sostanze. Oppure si può imprimere il segnale nell’acqua con il sistema dell’amplificatore inserendo l’elettrodo in uscita in una ampolla d’acqua pura
.

In questo caso la metafora è chiara, la procedura, il rito, per l’applicazione della metafora anche. Naturalmente nessuno sa se la metafora rappresenti qualcosa di vero, se essa nasconda una complessa verità provata scientificamente. Anzi, la metafora sembra contraddire principi basilari della scienza fisica moderna. Ma se malgrado ciò le cose funzionassero, il rito desse risultati pratici? Come si è arrivati a sviluppare la metafora? Come per il caso delle erbe medicinali si può immaginare che la metafora si sia sviluppata per sapienza antica, osservando effetti senza capirli ed applicando la sapienza, via via fortificando la metafora. Ma potremmo anche immaginare che è la nostra memoria che ha perso le spiegazioni scientifiche che provengono da tempi remoti.

L’esempio mostra che la cosa potrebbe funzionare anche con riferimento alle nostre preoccupazioni per il futuro. Può darsi benissimo che nel futuro le conoscenze che ora abbiamo si perdano e che rimangano solo le semplice metafore che già ora gli scienziati usano per farsi capire. E le procedure che i tecnologhi avevano predisposto per applicare i ritrovati della scienza.

Come esempio pratico di ricavare una metafora già ora attraverso un tentativo di capire delle teorie scientifiche da parte di un profano, si veda quanto dicevo a proposito della lettura del libro di G. Preparata sulla teoria dell’acqua (10 gennaio 97)

venerdì 18 aprile 1997

Dalla lettura di Opera Aperta di Eco, ricavo alcune considerazioni su similitudini tra arte e scienza nel dare una rappresentazione del mondo reale.

Anzitutto per ‘opera aperta’ si intende un’opera d’arte dai molteplici significati, un’opera che induca nel fruitore una varietà di idee e di immagini. Anche quando uno guarda delle macchie sul muro gli passano per la testa parecchie immagini. Tuttavia l’opera d’arte informale è qualcosa di diverso da un generatore di propensione a produrre immagini. Dovrebbe pur sempre rappresentare una specifica volontà dell’artista a gestire, delimitare, guidare l’immaginazione di chi guarda l’opera.

In una vera opera d’arte vi è sempre ambiguità, interazione tra l’opera e chi la contempla in modo che il fruitore sia un poco anche creatore. Tuttavia i significati sono molto più stretti, rispondono ad una metafora codificata, standard di rappresentazione del mondo. Invece, l’opera d’arte informale, almeno in linea di principio risponde ad una molteplicità di metafore di rappresentazioni, libera l’artista dai vincoli di una rappresentazione standard, canonica del mondo.

Eco fa delle osservazioni sul rapporto tra l’arte dell’avanguardia novecentesca e le rivoluzioni della fisica quantistica. Esse diventano preoccupanti se le si estendono al caso di una scienza che per farsi capire è lei stessa costretta ad usare metafore. Gli artisti si rifarebbero a queste metafore scientifiche per tentare metafore delle metafore.

Inoltre, che effetto avrà la tecnologia informatica su questa libertà di rappresentazione del mondo se porterà gli artisti a realizzare delle ‘macchine’ che rappresentano un particolare modo di vedere il mondo? La libertà acquistata con la perdita di una rappresentazione canonica, si trasformerà in una varietà infinita di macchine di produzione di immagini del mondo che avrà come scopo di stimolare la fantasia del fruitore. Ma poiché sono macchine, verranno prese più seriamente della produzione di un artista (un uomo) ed avranno carattere di veridicità. La realtà ‘virtuale’ così prodotta potrà venire scambiata per vera. Tante ‘realtà’ diverse in cui perdersi.

sabato 19 aprile 1997

Nel libro di J. Piaget ed R. Garcia Psicogenesi e storia delle scienze ci si preoccupa del percorso che nello sviluppo dell’individuo viene fatto nell’approccio alla conoscenza (del mondo esterno?).

Piaget si interessa dello sviluppo della psicogenesi, fino al raggiungimento della maturità nell’individuo. Cosa succede con la vecchiaia, con il declino dell’età? Si perde la conoscenza delle reazioni strutturali, poi quella delle relazioni inter-oggettuali per finire con l’accontentarsi di ‘è così perché dev’essere così’? 

E se ciò avvenisse per l’individuo, potrebbe avvenire anche per la storia della scienza? Potremmo via via perdere la possibilità di renderci conto di cosa ci ha portato la conoscenza scientifica, rifugiandosi prima in spiegazioni metaforiche (una rappresentazione delle relazione tra le cose) ed alla fine passare a dei riti che non mettono più niente in discussione: é così perché deve essere così?

domenica 20 aprile 1997

La sequenza del processo di sviluppo dell’intelligenza nell’individuo (psicogenesi) e della storia della scienza descritta nel libro di Piaget e Garcia che prevede tre fasi, sembra assomigliare a quella che io avevo descritto nel Gioco del Progresso
Là io dicevo che il progresso scientifico richiedeva ad un certo punto di inscatolare le conoscenze complesse in mattoni che diventavano pezzi elementari per costruire nuove scatole complesse fatte con quei pezzi. 
Piajet postula un processo continuo che passa attraverso le tre fasi (intra- inter- e trans) per poi ripartire. La fase trans-oggettuale (-figurale, -fattuale) produce dei nuovi oggetti (figure, fatti) più complessi da cui si riparte con la sequenza. 
La prima fase è un’assimilazione di fatti che vengono accettati (secondo il condizionamento delle cognizioni già esistenti a quel livello) senza poterne dare una spiegazione. 
Per poterla dare occorre passare ad esaminare le relazioni (trasformazioni) tra gli oggetti (fase inter-). 
Poi occorre generalizzarla (trovando delle leggi / strutture) ad un livello più alto in un nuovo sistema che assumerà le caratteristiche di un nuovo oggetto. 

In algebra si parte dallo studio di espressioni algebriche in cui si sono semplicemente sostituite delle lettere ai numeri (che però sempre rappresentano dei numeri generici) per arrivare alla fine a costruire degli oggetti (gruppi, categorie, ideali, anelli) che sono oggetti topologici che non hanno più niente a che vedere con i numeri, salvo che questi possono venire considerati come casi particolari derivanti dagli oggetti topologici.

La differenza principale mi sembra sia questa: il processo psicogenetico di Piajet permette di approfondire le conoscenze ponendosi via via domande più complesse. Nel caso mio, invece, si punta sopratutto alla costruzione di un aggregato sempre più complesso di oggetti sempre fatti però di mattoni di mattoni. Sembrerebbe più adatto a costruire cose (come fa l’evoluzione biologica) che a costruire conoscenza / scienza.

martedì 22 aprile 1997

Sempre reagendo all’Opera Aperta di Eco.

Vi sarebbe una corrispondenza tra la visione del mondo dell’epoca e l’opera d’arte. Se il Barocco riflette una visione del mondo non più geocentrica, nel medioevo l’opera d’arte era "conchiusa ed univoca" perché rifletteva una "concezione del cosmo come gerarchia di ordini chiariti e prefissati." L’arte contemporanea diventa particolarmente ‘aperta’ perché riflette l’ambiguità intrinseca nella visione fisica del mondo.

Il concepire l’opera come aperta, come qualcosa che può essere interpretata e trasformata in mille modi dal fruitore, è particolarmente evidente nella musica moderna che spesso lascia libertà interpretativa quasi completa all’esecutore. Tuttavia, se è un’opera d’arte, essa è ben diversa da un dizionario da cui si possono prendere in libertà le parole per costruire qualsivoglia discorso. L’artista ha pur sempre messo nell’opera una struttura che va rispettata. Ed anche se le interpretazioni possono essere infinite, sempre devono essere consistenti con la struttura. 
Come analogia si potrebbe pensare ad un’equazione differenziale. Chi ha scritto l’equazione ha implicitamente definito le infinite curve di soluzione che ne emergono a seconda dei dati al contorno scelti. Per fare un esempio concreto l’equazione di Bessel fornisce infinite curve soluzione, ognuna di forma estremamente diverse dall’altra. L’equazione tuttavia è la struttura che impone delle caratteristiche definite alle curve soluzione. L’interprete dell’equazione di Bessel può sbizzarrirsi a porre le condizioni iniziale e a vedere che forma ne uscirà fuori.

La tecnologia moderna, come si sta vedendo con le realizzazione di macchine virtuali, dà ancora più concretezza all’idea che l’artista sia un creatore di strutture, di ‘macchine meravigliose’ con cui chiunque può creare forme infinite (ma sempre all’interno delle costruzioni imposte dalla macchina).

La metafora dell’artista come uno che scrive un’equazione che poi lascia al fruitore a risolvere, lo mette ancor più vicino allo scienziato. Non solo l’arte come metafora epistemologica, ma addirittura utilizzante le stesse metodologie dello scienziato. Questi, cerca le strutture del mondo, e se le trova scrive dell’equazioni, delle leggi, che servono ad interpretare il mondo. Perché allora non mettere sullo stesso piano artista e scienziato, perché non usare le equazioni dell’artista per descrivere il mondo e non solo per giocare a creare mondi fantastici? Se le leggi fisiche danno luogo a molteplicità rappresentative, vi è la tentazione di aggiungervi le molteplicità prodotte dall’interpretazione delle strutture create dall’artista.

venerdì 25 aprile 1997

Sempre dall’Opera Aperta di Eco.

Il successo dello Zen in America sarebbe imputabile al fatto che " c’è nello Zen un atteggiamento fondamentalmente anti-intellettualistico, di elementare, decisa accettazione della vita nella sua immediatezza, senza tentare di sovrapporvi spiegazioni che la irrigidirebbero e la ucciderebbero, impedendogli di coglierla nel suo fluire libero, nella sua positiva discontinuità". Lo Zen "veniva ad insegnare che l’universo, il tutto, è mutevole, indefinibile, sfuggente, paradossale; che l’ordine degli eventi è un’illusione della nostra intelligenza sclerotizzante, che ogni tentativo di definirlo e fissarlo in leggi è votato allo scacco... Ma che appunto nella piena coscienza e nella accettazione gioiosa di questa condizione sta l’estrema saggezza."

Alla fine Eco conclude:"l’operazione dell’arte che tenta di conferire una forma a ciò che può apparire disordine, informe, dissociazione, mancanza di ogni rapporto, è ancora l’esercizio di una ragione che tenta di ridurre a chiarezza discorsiva le cose; e quando il suo discorso pare oscuro è perché le cose stesse, e il nostro rapporto con esse, è ancora molto oscuro."

Ne dovrei concludere che la mia preoccupazione - che da una società basata sulla conoscenza sempre più dettagliata della realtà si passi ad una società basata su riti e miti - sembrerebbe poco fondata. L'uomo, secondo Eco, cerca sempre la chiarezza anche nell'oscurità.