Ogni
nota, ogni suono, ogni idea in queste incisioni è compatibile
con i mezzi e il linguaggio del Settecento, ma, più di
questo, è l'espressione di una ricerca precisa: quella
più antica, per cui Natura e Cultura si devono armonizzare,
e non contaminarsi.
Così il mio inevitabile intervento sopra la scrittura
originale del Basso Continuo di autori barocchi, è una
composizione che rappresenta il mio tempo, nel senso del destinarsi
all'intelligenza musicale contemporanea. Per fare questo, qualsiasi
mia composizione -che inevitabilmente si sovrappone a quella
dei Maestri del passato, come l'intervento di un moderno architetto
"sopra" e non solo "intorno" a un edificio
antico- deve essere, e non solo rappresentare, il mio atto di
devozione e di studio del suo pensiero, ben oltre la misura del
significato storico del suo stile; ma nei confini di questo,
soprattutto là dove io scrivo e invento, destinando alle
loro opere il mio lavoro.
Infine, quei nostri suoni catturati da due soli microfoni in
posizione frontale (per costringerci ad essere "di fronte"
a voi che ascoltate, come in un teatro nelle vostre stanze, dove
possiate percepire la distanza fra i violoncelli e l'Organo,
o il cembalo, o la fatica, o la sensualità dei nostri
gesti nell'atto di cantare e suonare), quei suoni tradotti in
"numeri" e ammassati nella memoria elettronica del
computer, -a cui ormai quasi tutti, oggi, affidiamo il nostro
immaginare il futuro-, quei suoni, dicevo, che trattenuti nel
supporto elettronico attendono di essere selezionati, divisi,
scelti o scaricati per poter comporre il futuro disco - quei
suoni "virtuali" sono tornati ad essere "materia
prima" o "materia grezza", e necessitando del
venir nuovamente combinati fra loro dai tecnici addetti al lavoro
di "editing", non potranno essere e dare altro che
una diversa interpretazione della musica incisa e lì conservata.
In quei suoni può rimanere solo una memoria frammentata
dell'esecuzione che prima, con l'arco, le corde e il legno, non
aveva altra coscienza che della sua natura effimera. Ora, per
continuare ad esistere in un "disco" stampato e pubblicato,
e iniziare a ripetersi in una immutabile sequenza di effetti,
i suoni di queste composizioni muoiono decomponendosi
in codici elettronici, e da questa trasformazione la musica rinasce
in una nuova natura, ricomponendosi nella diversa intelligenza
musicale che l'elettronica ha concepito e generato.
Nulla, in fondo, sembra esser cambiato dai tempi antichi in cui,
costruiti i primi violini, vi si incideva nel prezioso legno
il motto: «Muta fui in silva, mortua dulce cano»,
volendo far intendere: nella foresta ero un albero vivo, ma ero
muto; morto e trasformato in violino, io posso cantare.
È necessaria la trasformazione, o la trasfigurazione,
o la metamorfosi, per accedere ai cammini dell'arte. Per questo
sento la necessità, l'urgenza di essere ancora io ad usare
quella "macchina", nobilitandola a "strumento",
affinché siano ancora le dita di un esecutore, la sua
sensibilità, la sua arte a ricucire, assemblare, miscelare
i suoni, i gesti musicali, le associazione di idee, emozioni,
che ora derivano solo più da impulsi elettronici tradotti
da "meccanismi" semplici, e si offrono nuovamente all'interprete
come un diverso utensile per la musica e la comunicazione, di
eccezionale popolarità, e quindi da usarsi con coscienza
e non indifferenza.
La necessità della musica di essere anche "chiusa"
dentro al tempo dei dischi, è generatrice di tutti i fenomeni
fondamentali delle sue inarrestabili mutazioni nel corso del
nostro secolo. La sua "amplificazione", determina il
non poter più stabilire, come interpreti, il "volume"
del suono di un incisione -ossia la "forza", il "colore",
la struttura dell'idea sonora- pubblicata o trasmessa nelle case
del nuovo pubblico.
E "amplificazione" è pure il creare e offrire
multipli di ciò che in passato era l'istante magico e
irripetibile del genio, dell'ispirazione dell'interprete. Benché
nelle sale da concerto tutto ciò non sia ancora una realtà
irreversibile, diventa però, per riflesso o per abitudine,
o per la consuetudine all'ascolto dominato da fenomeni incontrollabili
ed estranei, occupata a generare modi diversi e caotici di "capire"
la musica; cosa che nel fruitore di concerti e dischi è
un fatto d'orecchi e d'intelligenza in fragile, delicatissimo
equilibrio.
Per questo, io ho creduto di dover "nobilitare" l'operazione
del montaggio delle incisioni musicali, (avendo in mente il modello
del montaggio cinematografico, nel quale gli anni d'esperienza
e il lavoro di grandi narratori e artisti rende lezioni infinitamente
preziose), affidandolo solo a me stesso, con l'identica intenzione
e attenzione avute sia nel dirigere il lavoro interpretativo,
così come nel suonare il mio violoncello di fronte ai
microfoni.
E ho preteso tutto ciò, perché percepisco come
"devianti" le condizioni in cui questa operazione -inevitabile
per realizzare un'edizione discografica, anche se con pretesa
di essere "live" di un concerto- viene normalmente
svolta: affidandola ad altri.
Essi, anche se competenti, o persino musicisti di professione,
lavorando per "delega", possono solo essere parte incoerente
del prodotto artistico del musicista che ha eseguito la sua interpretazione
per incidere un disco; poiché c'è stato un impegno
di studio, di ricerca, esercizio, e ci si è posto il problema
del prendersi la responsabilità di ciò che si avvia
ad essere testimonianza e documento musicale. A meno che non
si voglia solo dimenticarlo in fretta per poterlo rinnovare,
ovvero forzando l'incisione dei dichi nei confini dei prodotto
effimeri.
Consegnare, nell'indifferenza generale, il montaggio discografico
ad altri che non siano gli interpreti stessi, corrisponde al
lavoro di un artista che abbia delegato esclusivamente al critico
di professione di scovare e dare un senso alle sue opere: quell'artista
potrebbe benissimo essere una scimmia; sta a noi e alla nostra
coscienza meditare se il prodotto di quella scimmia si tramuta
veramente in arte, o solamente in oro.
Essi assemblano, manipolano, correggono l'esecuzione registrata;
in breve mutano quell'avvenimento musicale e dunque lo reinterpretano.
L'oggetto musicale cambia significati, valori, senso; ma l'esecuzione
discografica "insegna", oggi, più di qualsiasi
scuola di musica, per effetto di un potere aggiunto e separato,
che è quello della commercializzazione.
Si potrebbe obiettare a tutto questo, dicendo che l'opera d'arte
in musica dev'essere solo la composizione e l'esecuzione "dal
vivo" nell'occasione concertistica, e non le registrazioni,
che dovrebbero allora limitarsi ad essere solo semplici testimonianze
di un'arte che avviene altrove.
Ma i fatti, la realtà del quotidiano fare e ascoltare
musica, mostrano che non è, e che non può essere
così: il disco deve urgentemente "nobilitarsi"
al rango di opera d'arte, perché la sua invadenza e il
suo potere come mezzo di diffusione e comunicazione musicale,
sono già troppo grandi. La musica "data" dal
palcoscenico prima o poi ne sarà troppo condizionata,
e già oggi soffre abbastanza dei troppi altri problemi
dell'incomunicabilità o incompatibilità di troppi
generi, stili e messaggi.
Se dunque la tradizione musicale oggi non può più
permettersi di essere solo un fenomeno di costume, rappresentando
quello o quell'altro gruppo sociale, o solo un fenomeno esiliato
in astrazioni intellettuali troppo lontane dalla natura del bisogno
di musica, (e troppo spesso "mute" anche per il nostro
nervo acustico), io sento pure fortemente, oltre a questo, che
deve soprattutto rimeditare il suo essere partecipe -con la grandezza
che le deriva dall'ininterrotto ripetere e studiare, e dalla
devozione al senso spirituale dell'arte- del nostro inquietante
penetrare nel nuovo Millennio.
Qui
e ora, ripetendo ancora e ancora le nostre vecchie storie, saturo
anche dei troppi "commentari" al "già
detto e già sentito", io cerco solo più
di cambiarle appena un poco, di mutare qualche lettera, spostarla,
solo per poterla poi rimettere al suo posto, e godere del riconoscerla
perfetta.
Così, come in un sogno prezioso, imparo di nuovo ad ascoltare,
e fintanto che si ripete ancora la favola di Pamino e Pamina,
e Papageno e Papagena, e Mozart e Schikaneder, in mezzo a un
caos ancor più caotico di solennissimi simboli, di enigmatici
misteri, in un barocchissimo conserto di intrecci, nel
centellinare ancora quell'Opera, parola dopo parola, nota dopo
nota, fra sorpresa, paura, gratificazione, io sogno di rappresentare
il tutto con un nuovo, ammiccante narratore, che in un magnifico
Teatro ci racconti ancora: «C'era in quel luogo una Regina:
la Regina della botte...»
«Della
notte!», griderà allora un bambino nella
sala.
«Sì
sì, della notte. Ella era...»
E così,
ripetendo e variando, all'infinito...
Claudio
Ronco, Venezia, settembre 1996.
© C. Ronco
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