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§ Morfogenesi artificiale e complessità
§ Etica, complessità, sfide ambientali
§ Il sistema urbano - La città in Europa
§ Per la complessità ci vuole una cultura.
§ Per una cultura della complessità
Da Il Sole 24 Ore, Venerdì 6 ottobre 1989
Per la complessità ci vuole una cultura.
Non possiamo più
considerarci piccoli rispetto al mondo. Anche un nostro semplice gesto può mettere in moto
reazioni del tutto inaspettate. Che sarà mai lasciare un sacchetto di plastica
in un angolo remoto della campagna dopo un pick-nick? Eppure ci si dice che quel
sacchetto - o forse un altro tra i tanti abbandonati, poco importa - spinto dal
vento, finito in mare, ha causato la morte di un delfino. Può il battito delle
ali di una farfalla ad Hong Kong causare un tornado nei Caraibi? Per quanto
paradossale la domanda è posta dagli stessi meteorologi ad indicare che la
complessità, la non linearità del sistema che governa i movimenti atmosferici
non permette di escludere in linea di principio una tale eventualità.
Da sempre la natura
conosce e convive con sistemi complessi. Noi tuttavia pensavamo che i sistemi
artificiali e sociali fossero più semplici e quindi oggetto di previsione e di
azioni razionali. Invece così non o non è più, anche a causa della densità
con cui l'uomo ed i suoi artefatti hanno
invaso il pianeta.
Il problema non
riguarda solo gli effetti dell'uomo sull'ambiente. E’ solo la punta di un iceberg. Siamo immersi nella
complessità in tutti i nostri campi di azione. Complessità, tra l'altro vuol
dire che non è vero che se l'azione è piccola l'effetto sarà
proporzionalmente piccolo, non è vero che se l'azione è «buona» il risultato
sarà per forza buono. Da qui la confusione degli animi, la perdita di forza
delle ideologie semplificanti, lo scoraggiamento di chi vede effetti perversi
derivare da conquiste sociali per cui si era battuto.
Il caso della
salvaguardia ambientale è tuttavia emblematico. Abbiamo scoperto che non è più
possibile ritagliare la nostra piccola fetta di mondo e valutare al suo interno
le nostre azioni. Esistono «esternalità» che vanno prese in considerazione,
spesso.quasi tutte negative. Anche se aumenta l'onerosità dell'operazione e la
difficoltà di prevedere e decidere «razionalmente», si è pensato di
risolvere il problema inserendo la nostra fetta di mondo in ama più grande. Ma per quanto grande, vi sarà sempre una limitazione una
semplificazione rispetto all'intero sistema. Vi
saranno esternalità prodotte dalle esternalità. Che fare allora? In
tali condizioni è difficile decidere. Sembrava che la cosa
valesse solo per interventi molto speciali
e di grandi dimensioni: le centrali, nucleari. Ma poi quelle a carbone, a
metano, idrauliche. E se prendessimo sul serio l'energia
solare siamo sicuri che le comunità locali non sì opporranno alla
sostituzione di prati con campi di specchi od altro? Ma se si tratta di una
piccola fabbrica? Che impatto avrà sull'ambiente? E cosa ne facciamo dei
rifiuti domestici? Chi accetta. di avere nelle vicinanze di casa sua degli
impianti di smaltimento?
Allora, è il blocco, la paralisi? Non siamo più capaci di decidere? Stiamo diventando una società bloccata? Se è vero che l'Italia, proprio per le sue carenze strutturali, burocratiche o meno, è un laboratorio che anticipa il futuro di un mondo sempre più difficile da «gestire», in cui anche i più bravi ed efficienti ad un certo punto non sapranno più cosa fare, allora la nostra esperienza di tutti i giorni. ci porta a pensare di essere veramente vicini alla condizione di blocco.
Quali certezze per la guida all'azione si possono avere in tali condizioni? Le uniche certezze sono quelle negative dei cosiddetti «verdi». Ogni decisione prospettata, ogni intervento è negativo perché avrà degli effetti negativi. Difficile negarlo. Ma quali sono le alternative?
Anzitutto va detto che il blocco è efficiente se è globale. Se il sistema è veramente complesso è infatti difficile decidere a priori quali siano le cose «piccole» che si possono fare dalle cose grandi da bloccare. Una goccia è piccola, come tutti sanno. Ma se il. vaso è colmo anche una piccola goccia provoca, con la rottura della tensione superficiale, il trabocco di una massa d'acqua molto più grande. Il blocco parziale è il peggiore dei comportamenti possibili, perché porta più rapidamente il sistema al disequilibrio, alla «catastrofe». Basti pensare a quanto è avvenuto nelle nostre città. Non più costruzione di grandi infrastrutture di trasporto, ponti, sottopassaggi, metropolitane. Ma non si è fermato contemporaneamente lo sviluppo delle molteplici e varie attività urbane. La conseguenza è il caos dei traffico. L'idea di poter tornare «piccoli», rispetto al mondo è irrealistica come lo è il blocco totale. L'uomo non può rinunciare a sopravvivere agendo e modificando l'ambiente a suo favore. D'altra parte non può neanche scavarsi la fossa con le sue mani.
Da qui la sindrome della incapacità di decidere che colpisce anzitutto i governanti, ed in generale gli uomini d'azione responsabili di «grandi sistemi», siano essi pubblici o privati. Per vincere la sindrome, l'alternativa sembra essere una sola: accettare quello della complessità come un fatto con cui si deve per forza convivere ed imparare a gestire il proprio operato nella complessità.
E’ possibile? La risposta deve essere per forza positiva, anche se non si sa bene quale essa sia. Certo, è più facile gestire sistemi «lineari» rispetto a quelli non lineari. Ma è possibile «linearizzare» la complessità? Ci hanno provato i matematici che hanno cercato anzitutto di estendere le ampie conoscenze sviluppate sui sistemi lineari a quelli non lineari cercando di approssimarli ai primi. L'approccio tuttavia non porta lontano. Allora? La difficoltà dei campo di ricerca ha stimolato ad affrontare i problemi con nuovi approcci e la dinamica dei sistemi non-lineari sta ora diventando un campo di ricerca d'avanguardia.
L’esempio è citato non per suggerire che il manager moderno debba diventare un esperto di una matematica per altro assai complessa anche per gli addetti al lavoro che non siano specialisti dei campo. Viene citato solo per indicare che l'accettazione della sfida della complessità è già un passo avanti importante. Occorre sviluppare una cultura della complessità.
Nota non
pubblicata 1/12/1989
Per
una cultura della complessità
Sarebbe
difficile convivere con, o addirittura gestire, sistemi complessi se essi non
fossero in condizioni di stabilità. Per nostra fortuna questa è di
regola il caso. Al punto che ci dimentichiamo che dalla condizione di stabilità
si può anche uscire. Ma cosa significa e come si fa a riconoscere la stabilità?
E'
possibile capirne i tratti essenziali anche considerando dei sistemi molto
semplici od apparentemente tali. Ad es., il caso del pendolo è emblematico di
quanto può succedere in sistemi ben più complessi. Esso ci permette di capire
come la stabilità - anzi la stabilità strutturale - sia un regime che
vale solo in certe condizioni. Superate le quali si passa da un regime ad un
altro. Tuttavia, al momento del passaggio vi è una biforcazione, un
bivio, e non è possibile prevedere quale strada il sistema prenderà. Le
biforcazioni possono succedersi, contrassegnando sempre regimi di stabilità.
Tuttavia in particolari condizioni si può arrivare addirittura dalla stabilità
al caos.
Queste
caratteristiche sono comuni a molti sistemi complessi - quasi una legge
naturale. Rimando il lettore curioso al libro di un fisico tedesco, H. Haken, Slnergetica
(Boringhierí, 1986), che descrive numerosi esempi presi da tutti i campi.
Nel caso del pendolo la biforcazione porta a due stati di stabilità che, salvo la posizione, sono per il resto del tutto identici. Non è tuttavia così, in generale, per sistemi più complessi. Gli stati di stabilità alternativi dopo la biforcazione sono in generale del tutto diversi. Possiamo immaginare che uno sia più interessante, più efficiente, dell'altro. Dal punto di vista pratico, si pone pertanto il problema di saper anticipare se il sistema passerà su uno o l'altro degli stati, o se sia addirittura possibile "aiutarlo" a seguire una strada piuttosto che l'altra. Per far ciò diventa particolarmente interessante capire quando ci si sta avvicinando alla biforcazione. Ci sono segni premonitori? Sì, se si sanno cogliere. Se si perturba un sistema, esso tende ad oscillare. Le oscillazioni sono molto più grandi se si è vicina alla biforcazione che se si è lontano. Poiché un sistema reale è sempre soggetto a perturbazioni di varia natura, la irrequietezza del sistema è un indice che si è in fase di transizione da un regime di stabilità ad un altra.
Cerchiamo ora di utilizzare questi concetti per porci delle domande di interesse per l'attività imprenditoriale. Prendiamo un prodotto, ad es. l'automobile. Chiediamoci anzitutto se esso formi un sistema complesso. Non vi saranno dubbi al proposito se si considera l'insieme delle tecnologie per produrla, della rete di vendita ed assistenza, dell'uso che di dell'auto si fa. Sul mercato sono presenti modelli diversi, fabbricati da produttori diversi. Il fenotipo di ciascun modello - i materiali con cui è realizzato, le sue forme, le sue prestazioni particolari - rispondono ad un diverso genotipo. Questo é rappresentato dall'insieme di conoscenze teoriche e sperimentali, dalla particolare storia dello sviluppo tecnologico del singolo produttore, dalle caratteristiche peculiari di ciascuna organizzazione produttiva (si veda il quid rappresentato dalla cultura giapponese).
Chiediamoci ora se possiamo considerare il sistema auto in regime di stabilità strutturale e quanto lontano da possibili biforcazioni. Ogni nuovo modello di vettura tende a dare la sua risposta ai cambiamenti che nel frattempo sono avvenuti rispetto a quando venne concepito il modello precedente da sostituire. Vi sono certo stati cambiamenti nell'organizzazione progettuale e produttiva, nelle sue capacità di interiorizzare nuove tecnologie e nuovi materiali. In altre parole il genotipo tende a cambiare da un modello all'altro, già per ragioni interne al produttore. Ma è cambiato nel frattempo anche l'ambiente. E come parte dell'ambiente possiamo considerare non sola l'aria, l'acqua, la qualità della vita, le idiosincrasie dell'utilizzatore, ma anche il sistema tecnico, (l'insieme dei materiali, dei prodotti, delle tecnologie produttive in tutti i settori e non sola nell'auto).
Il genotipo del nuovo modello quindi cambia anche in risposta ai cambiamenti ambientali.
I cambiamenti che si sono avuti negli ultimi vent'anni sia nell'ambiente ecologico che in quello tecnologico sono stati così grandi che è ragionevole chiederci se il cambiamento del fenotipo auto non sia stato tale da essere passati - magari senza averlo percepito - da un regime di stabilità ad un altro. E’ questo il caso? La risposta che do, personalmente, è negativa. In realtà mi sembra che i nuovi fenotipi siano simili a quelli precedenti nel senso che ne è riconoscibile il cambiamento e la loro logica. Anzitutto, nessun cambiamento è avvenuto nella ripartizione in sottosistemi e componenti che si integrano nel prodotto, anche se sono cambiate le tecniche e tecnologie con cui vengono realizzati. L'iniezione elettronica ha sostituito il carburatore, mantenendone tuttavia le funzioni essenziali. Non è escluso che il modello successivo ritorni alla soluzione carburatore se le condizioni ambientali ritornassero a quelle precedenti (minor enfasi sul risparmio energetico e sull'ambiente, minori costi). La risposta alle richieste di riduzione dei consumi è stata quella di migliorare il disegno, sia aerodinamico che strutturale. Ma anche qui è riconoscibile la trasformazione le sue ragioni logiche e le procedure. Considerazioni analoghe valgono per la risposta data alle più severe regolazioni sulle emissioni.
Tuttavia anche se si accetta questa visione di regime stabile, c'è da chiedersi se non ci si stia avvicinando ad una biforcazione. L'esempio di sistemi fisici facilmente definibili, come il pendolo, mostra che vanno guardanti con particolare attenzione i cambiamenti nell'ambiente. Se si mette il pendolo su una giostra, il cambiamento ambientale è rappresentato dall'introduzione della forza centrifuga che si aggiunge alla gravità. In presenza di cambiamenti ambientali, il sistema reagirà anzitutto con le sue ricette usuali che lo mantengono su un fenotipo simile. E se i nuovi cambiamenti ambientali superassero certe soglie critiche?
Credo che per quanto riguardi l'auto occorra guardare con attenzione alle novità nella base tecnica e tecnologica rappresentati dalla microelettronica e dall'informatica. Fino ad ora l'auto ha risposto alle sfide ed opportunità interiorizzando le tecnologie elettroniche senza tuttavia modificare in modo radicale la schema con cui essa è concepita. Si tratta per lo più di innovazioni di sostituzione. Ma sarà sempre così? La fantasia può già dare risposte positive. E' pensabile, ad es., concepire un dream car e magari realizzarne un prototipo, in cui la funzione di guida e sterzo utilizzi l’elettronica come la si utilizza oggi sugli aerei. Drive by wire potrebbe diventare lo slogan della nuova auto. Difficile in tal caso non riconoscere che sì è cambiato regime di stabilità. Difficile anche tornare indietro se ci si fosse veramente avviati in tale direzione. Non riconoscere per tempo la biforcazione, insistere sulla vecchia soluzione, può significare per una azienda scomparire. Gli esempi non mancano nella storia tecnologica.
Ci sono segni premonitori? Come riconoscerli? Gli esempi di biforcazioni incipienti In sistemi fisici ci dicono di stare attenti alle fluttuazioni, alle irrequietezze del sistema. Il successo in nicchie di mercato di una vettura concepita con soluzioni strane e rischiose o ridicolizzate dai progettisti convenzionali, potrebbe essere un tale segnale. L'auto elettrica ad es., se si notasse una crescita di tentativi di svilupparla anche se tutti fino ad allora falliti.
In sintesi. Abbiamo parlato in un precedente intervento (24 ORE del 6 ottobre 1989), della importanza di sviluppare una cultura della complessità. Il paradosso della difficoltà di operare e di modificare sistemi complessi viene in pratica risolto grazie alla stabilità strutturale del sistema. Tuttavia, le cose possono cambiare. Già l’essere abituati a prendere in considerazione come può avvenire il cambiamento - interiorizzare il concetto della biforcazione verso altri regimi possibili di stabilità - è già un passo avanti.
E se al di là ci fosse il caos? Meglio per ora sorvolare. Basterà per rassicuraci, pensare che da molti ormai il caos è considerato elemento fondamentale per il progresso ed onnipresente.
Nota non pubblicata, Dicembre 1989
1) Siamo tutti uomini della strada?
La differenza tra uomo della strada e scienziato, tra laico e sapiente tende ad azzerarsi davanti ai grandi problemi della complessità, del vivere odierno. Anzi! I sapienti in quanto tendono ad analizzare i sistemi, diventano sempre più coscienti che lo scavare mette in luce complessità crescenti. Il sapiente, più che il laico, davanti alla necessità di agire è bloccato. Non può infatti godere dei vantaggi dell’inconsapevolezza della complessità.
Ma la voglia di azione dell’uomo della strada può essere portatrice di cambiamento effettivo? Non è meglio partire dalla constatazione che la complessità ha reso tutti democraticamente uguali, tutti uomini della strada e quindi cercare di far confluire voglia di agire e consapevolezza della ignoranza rispetto alla complessità?
2) Verde é bello?
Verde colore della speranza. E’ bello averlo come colore della bandiera.
L’improvvisa vista del baratro che sta innanzi, fa indietreggiare, volgere indietro ai verdi e tranquilli prati che abbiamo lasciato. Perché quindi non tornare indietro? Se tuttavia un mago cattivo ci impedisce di farlo? Chi è il mago cattivo? Il nostro indulgere nelle comodità superficiali della vita e la poca voglia di tornare indietro? Chi è responsabile del baratro? La tecnologia?
Ma non è così chiaro. Forse la metafora è
un’altra. La strada che ci ha portato al baratro è tutta dolce ed in discesa
e non si vuole rifare la faticosa salita per tornare indietro. Il baratro
tuttavia non ci piace. Qualcuno pensi a gettare un ponte. Ma chi? Ci pensi il
sapiente, non l’uomo della strada. Ma se
questi non sa cosa e come fare?
Forse si
può tornare un po’ indietro e cercare altre strade. Ma anche qui pochi
vogliono fare la fatica necessaria. Inoltre non vi é sicurezza che poi il bivio
ci sia.
Si può
utilizzare il prestigio dei
Verdi, la loro forza di persuasione – nuovi profeti della terra promessa - per
indurre a cambiare strada?
3)
Il giallo è inevitabile?
Il giallo
è il colore del pericolo. Viviamo in mezzo al pericolo. Riusciamo ad
accettarne dosi crescenti, purché vi siano contro partite.
Il
progresso scientifico e tecnologico ha aumentato di molto i rischi ed i
pericoli. Ma ha anche fornito molte contropartite, almeno là dove esso si è più
sviluppato: guardate alla durata della vita; guardate allo spostamento dei
bisogni: dal cibo alle vacanze esotiche!
Il
progresso porta a sistemi sempre più complessi, sempre più difficili da
controllare se qualcosa non va. Tuttavia
il progresso è un processo inarrestabile. Può darsi che si intravedano dei
baratri, ma il progresso stesso lo sposterà via via in avanti. In ogni caso siamo come su una valanga: non si può arrestarla. Siamo
condannati al progresso. Forse si può tentare di guidarne il corso, non di
tornare indietro.
Ma è
veramente inevitabile una vita sempre più tinta di giallo? Se anche così fosse
non ci sono alternative meno pericolose? Si può progettare il progresso?
E poi,
perché questa visione catastrofica? Anche se la temperatura media crescesse di
qualche centesimo di grado all’anno per colpa dell’anidride carbonica che il
progresso immette nell’atmosfera, ciò non cambierà l’ambiente da un giorno
all’altro. Ci vorrà tempo. Ci sarà tempo per provvedere.
Ma il
progresso è proprio lineare? E sono lineari anche gli effetti negativi indotti?
4)
La goccia ed il vaso.
Vi sono esempi di catastrofi che derivano da un innocuo comportamento che siamo soliti fare. Che cos’è una goccia in un grande vaso? E’ tanto tempo che versiamo gocce e non è mai successo niente. Ma se il vaso è colmo? E se non fossimo in grado di vedere che esso è colmo perché la “complessità del sistema” ci impedisce di vedere? E se la prossima goccia fosse l’ultima goccia dopo di che si rompe la tensione superficiale e l’effetto è una valanga d’acqua (molto più grande della goccia) che travasa?